Nella lettera di Greta l’invadenza di una morale che, lungi dall’essere una questione solo personale e individuale, si insinua anche nelle vite di chi non la condivide. Con il ricatto.
Una persona a me cara è in Rianimazione.
Fa un certo effetto perfino scriverlo, figuriamoci viverlo.
Condivido le visite in ospedale, frequenti quanto richiede il nostro profondo legame, con un’altra persona che in passato mi ha frantumato l’anima al punto da cambiarmi la vita.
Anche la persona in Rianimazione è stata devastata dal comportamento dell’altro individuo, ma a differenza mia vive in una profonda fede cattolica, ove il perdono incondizionato e la demonizzazione dell’amor proprio sono esaltati come virtù.
Questa sgradevole ma necessaria condivisione degli spazi ha portato – come è naturale pensare – a situazioni difficili.
Il bilancio di questa esperienza ha del buono, non lo nego: mi fa apprezzare in particolare il fatto di vivere dove la sanità è gratuita e di un livello più che accettabile e dopotutto l’amore, come ha sempre fatto, mi fa superare anche i momenti più difficili.
Non posso però trascurare il marciume. E ci rimugino parecchio, da parecchio tempo, su questo marciume, perché qui ha toccato un apice ma non è la prima volta che emerge o – meglio – che mi ingabbia e mi sommerge.
Questo marciume lo posso etichettare senza esitazione come «morale cattolica».
Come possa una radicata cultura cattolica rendere un individuo cieco e privo di amor proprio è qualcosa che va oltre la mia comprensione ma, finché non va a incidere sulla mia sfera personale, è la mia stessa morale (laica) a impormi di non interferire con le scelte intime altrui se non dietro esplicita richiesta.
È propria invece dei cristiani l’ingerenza nella vita di chi farebbe volentieri a meno della loro opinione, che spesso diventa imposizione.
E ora arrivo al punto.
Una persona che amiamo profondamente e che soffre molto ha di diritto la possibilità di chiedere e quasi sempre di ottenere quello che vuole. Credo sia qualcosa di molto umano e universale.
Ma se chiede l’impossibile, ovvero che noi «perdoniamo» in senso cristiano?
Un perdono che non fa seguito a una esplicita domanda – magari corredata da sincere scuse – da parte della persona da perdonare, ma che viene chiesto per intercessione. (Ma… serio?)
Un perdono che – a loro dire – fa più bene a noi che a chi viene perdonato. (Ma che…? Ahó!)
Un perdono gratuito e totale, che lavi ogni macchia di dubbio e che ricostituisca la realtà esistente prima del torto subito, sia questo un torto lieve o qualcosa che ti ha sconvolto. (Sì, certo, e io sono Madame de Staël.)
Un perdono che, se rifiuti di concederlo, incrinerà per sempre il rapporto con la persona che – ricordiamolo – è in Rianimazione. (Qui non ho battute, solo tanta amarezza.)
Un perdono che è un ricatto, in realtà.
Il ricatto della morale cattolica.
Greta
Qui sotto trovi la possibilità di commentare questa lettera. Per farlo, devi
1. confermare che sei ateo/a,
2. essere consapevole che, se menti, stai commettendo il gravissimo peccato di apostasia,
3. aspettare che il commento sia approvato dall’admin.
L’approvazione dei commenti dipende dall’insindacabile e inappellabile giudizio dell’admin. Se vuoi saperne di più a proposito dei commenti, puoi consultare le FAQ.
Inoltre puoi commentare gli articoli e i post nel Gruppo Facebook de L’Eterno Assente, se ti iscrivi al Gruppo dopo aver risposto a una semplice domanda.
Innanzitutto ti esprimo solidarietà umana e vicinanza in questo difficile periodo, Ti auguro il meglio.
Concordo con Matilde, ti porto il mio punto di vista. Per me il perdono è possibile solo in seguito a tre premesse:
1) Danno non intenzionale.
2) Pentimento sincero.
3) Chi è sinceramente pentito cerca di porre rimedio.
Ma non tutto torna come prima. Bisogna tirare una linea di confine e decidere cosa è inammissibile. Se mi hai pestato il piede involontariamente e mi regali un altro paio di scarpe bianche, amici come prima. Se non mi hai versato i contributi per 10 anni da dipendente e ti presenti con un assegno, posso darti una possibilità. Se mi hai ucciso il figlio è impossibile.
Escludo la vendetta, che nel sentimento comune è la prima cosa che viene in mente in caso di gravi tragedie. E’ un cancro interno che distrugge tutto, anche le poche macerie rimaste. Anche per me l’unica soluzione è il dissolvimento. Ti incontro per strada e non ti vedo. Il mio sguardo ti attraversa come un fantasma. Per me non esisti più.
Questo è praticabile solo se la minaccia è cessata. Se puoi ancora danneggiarmi devo anticipare tutte le tue mosse e farle fallire. Un po’ come le arti marziali in cui lo scopo non è danneggiare l’avversario ma metterlo in condizioni di non nuocere.
Il mio nucleo di coscienza è come un tempio, è la cosa più preziosa. Nessuno può entrarci, neanche gli affetti. Se lo accettassi andrebbe tutto in frantumi. Alla persona cara che mi chiede di perdonare qualcuno al di là del mio confine rispondo in modo evasivo: “si, ti prometto che ci lavorerò su, ma mi serve altro tempo”. Non è una bugia, ma io so già che la risposta è no. Il credente deve capire che questa è la mia ultima offerta. E’ uno spiraglio di speranza, deve solo illudersi che sia vero. Non dovrebbe essere difficile per lui aggrapparsi al nulla, è già abituato.
Ciao, Max.
Il perdono è una finzione narrativa. Ci sono storie che non si possono raccontare senza che ne sia stata ripulita una parte sporca. Nelle mani dei narratori ufficiali ci sono degli
strumenti – immaginate delle spugne oppure dei deleting tools – che servono a riscrivere le storie così che possano essere accettabili per tutti. Tutti chi? Tutti coloro che vogliono credere alle storie raccontate dai narratori ufficiali.
Io mi chiamo fuori. Non credo ai narratori. E allora il perdono non esiste. Se qualcuno mi fa un torto posso capire perché lo ha fatto, posso capire perché mi fa male, posso anche decidere quale ruolo ha la persona che mi ha ferito, decidere di comprendere e rivedere la mia relazione (la quale ne può uscire menomata o migliorata, oppure semplicemente conclusa), ma soprattutto è importante che io capisca quale immagine di me e quale immagine dell’altra persona quel torto ha prodotto. Se quella persona rimane parte della mia vita, allora non l’ho perdonata: ho capito le ragioni di un evento e ho deciso che non ha (o non ha più) la capacità di ferirmi. L’evento. La persona potrebbe ferirmi ancora (o potrei farlo io) e si ricomincia a capire reciprocamente ragioni e possibilità.
Per chi sta dentro le narrazioni ufficiali il perdono serve a cancellare, dicevo più sopra. Ma la storia è molto diversa, a seconda che sia raccontata da chi perdona o da chi chiede perdono. Chi perdona appartiene ai santi viventi. Bravi, buoni, pazienti… talmente bravi e buoni che se sei tu, il perdonato, ti senti quasi una merda. Sembrano avere un cancellino di quelli di una volta, con il feltro che toglie il gesso bianco dalla lavagna nera e se poi lo scuoti ti viene addosso una nuvola di cose cancellate che se non stai attento ti intossichi. Il perdonante cancellatore ha un potere sul perdonato. Il perdonato deve soffrire.
Se invece – in una narrazione ufficiale – qualcuno ti chiede di perdonare un povero essere umano che ha sbagliato senza sapere di sbagliare, scappa. Nessuno ti darà un cancellino potente, potrai solo metterti addosso un mantello enorme e pesantissimo, così le ferite inferte non si vedono. Dal loro punto di vista l’effetto è raggiunto. La colpa non c’è più. Perdonata. Perdonata da te che non solo hai le ferite, le bende e il gesso (tutto a spese tue), ma hai anche il mantellaccio ruvido che ti fa sparire. Più hai ferite, più devi sparire. Non basta che spariscano le ferite, devi proprio sparire TU. Se proprio vuoi, puoi mandare sulla scena una finta te, che non ha mai sofferto. Che non ha mai subito niente. Come nelle storie retro-futuriste, in cui il clone sorridente è più efficiente dell’umano che soffre.
Cara Greta, nella realtà reale non esiste perdonare. Puoi accettare la fragilità della persona che soffre, che hai davanti a te e che vuole (forse non può fare altro che volerlo) vivere nelle narrazioni meno pericolose: quelle ufficiali. Racconta pure una storia di finzione, tanto è una storia. Non la tua vera, solo la tua con questo pezzo di storia incasinato.
L’altro personaggio, che non ritiene nemmeno, con tutta probabilità, di aver bisogno del tuo perdono, va cancellato dalla tua storia reale e soffocato, nella finzione ufficiale, da tanto di quel perdono che lo cancelli via, via dalla pesantezza, via da te, soffocato dal gesso e anche sotto il mantello del finto perdono. Che crea una tua vera libertà.
Devo riflettere molto su questo punto di vista; ti ringrazio, mi piace molto elaborare e scavarmi.
Magari riesco a sorprendermi e a seguire il tuo consiglio.
Ciao Greta, grazie per questa condivisione.
Un forte abbraccio!
Domande per Greta:
Potresti essere più chiara?
Come è stata fatta la domanda di perdono? Chi era presente?
Un’ipotesi me la sono fatta, ma preferirei che fossi tu a esplicitare i fatti.
Inoltre la tua affermazione (se chiede l’impossibile, ovvero che noi «perdoniamo» in senso cristiano) è molto drastica, ha sapore di astio e rancore, sentimenti che possono essere motivati (nel tuo caso, lo sono). Tuttavia perdonare, sia in senso cristiano sia ateo, è una facoltà, una scelta personale. Secondo te, l’ateo non può/non deve perdonare? Ecco: nel tuo caso non direi che è “impossibile”, direi che è “ingiustificato”.
Grazie.
Eccomi.
Purtroppo non posso essere estremamente specifica perché darei dettagli di privacy che non sono solo miei e di cui dispongo nel limite del consentito.
La domanda non di perdono, ma di perdonare, mi è stata fatta dalla persona molto, molto malata in un momento di nuda fragilità. Una persona alla quale in quel momento mi è costato uno sforzo immane a non dirle di sì. Tanto che si sono equiparati il dolore di dirle di no a quello che avrei provato per le conseguenze di un sì.
Non era presente la terza persona, quella che dovrei perdonare per intercessione di quella malata, per essere più chiare. Né questa terza persona ha mai esplicitamente detto a me di voler essere perdonata o manco ha dimostrato di aver davvero compreso quanto male mi (ci) abbia fatto.
Altroché che ha il sapore di astio e rancore. Ho perso molto a causa delle sue azioni. Non dico che sarei una persona diversa, ma da quel momento ho saputo che non sarei mai più stata davvero spensierata.
Non ho affatto superato tutto ciò, infatti dopo innumerevoli sedute di terapia l’unica cosa che mi ha lenito il dolore è stato elaborare un falso lutto eliminando dalla mia vita quella persona.
Che è poi rientrata di prepotenza (senza scusarsi) e ora tramite la persona malata tenta di riconquistarmi.
Non posso essere più esplicita di così senza ledere l’altrui privacy.
Ed ora la mia opinione (che cambierà, chissà) è che perdonare non è una scelta personale. Si può scegliere di diventare vegani, si può scegliere di eliminare dalla propria vita qualcuno, si può decidere di riprendere gli studi. Ma scegliere di perdonare implica una pletora di azioni precedenti che in parte non dipendono da noi. Mancando anche solo un tassello di questi, il perdono è posticcio e in quanto tale, inutile se non dannoso.
Inutile perché ci sarà sempre qualcosa che ti farà tornare sul male che ti è stato fatto, la paura che succeda di nuovo. Dannoso perché dai un’immagine di te falsa, e (parlo per me) la mia bussola morale è mostrarmi tale quale sono e rinnegare ogni ipocrisia.
Sul secondo me, chi sono per dire cosa deve fare “l’ateo”? (o chiunque).
Io personalmente agisco come detto sopra… Che questo mi porti a perdonare, essendoci tutti i presupposti, ben venga magari poi smetto con le paranoie.
In generale sono grande fan del ciascuno abbia la sua coscienza.
Se qualcuno riesce a passare sopra e non ripensarci più, cavolo ammetto di essere invidiosa.
O forse come la mia psicologa mi ha ben descritto, ormai sono come. Uno specchio rotto, non tornerò mai più a restituire una immagine tale quale, ora tutto passerà attraverso le mie ferite e quello che restituisco alla vista altrui non è brutto, è semplicemente diverso. Magari pure più interessante.
Magari esistono persone che, una volta incrinato il proprio specchio, riescono a ricostituirlo, ecco loro fanno bene a farlo.
Non so se Ho chiarito o ingarbugliato ancor più la questione.
Ti ringrazio per la risposta.
Avevo intuito quasi tutto quello che mi hai chiarito. Ti capisco e ti auguro di superare ogni difficoltà, soprattutto di acquisire la “serenità”. La serenità è importante!
Io, che come tutti ho avuto qualche gioia e molti dispiaceri, sono sereno, stoicamente sereno. Ho 88 anni d’età e poco mi turba e mi disturba, comunque sempre poco e per poco tempo. Sarà effetto dell’età? Un po’ sì, ma ci sono arrivato da molti anni e progressivamente. Ti auguro altrettanto.