Mora racconta la propria Storia per «Io senza Dio»
La mia deconversione avvenne all’età di 49 anni, quasi 50, a pochi mesi dalla morte dei miei genitori. Eravamo nel 2009. Babbo morto a luglio, mamma morta ad agosto, io diventata agnostica a Natale.
Per arrivare al momento in cui ho realizzato di non credere più in nessuna religione né in un qualche dio, al quale segue un lungo periodo di ricerca e di riflessione che dall’iniziale agnosticismo conduce a un quasi ateismo, bisogna che dica che tipo di credente ero e poi perché proprio la morte non prematura dei miei cari abbia dato il colpo di grazia al castello di sabbia.
Sono cresciuta in una famiglia non praticante e con babbo che lasciava intuire di essere ateo. Ma non saprei, perché in realtà non lo ha mai detto, era solo fortemente anticlericale, questo sì. Quanto vorrei poterglielo chiedere! Ma non c’è più. Comunque lui prendeva bonariamente un po’ in giro la nonna (per lui suocera) bacchettona e, quando gli capitava di trovarsi in chiesa per questioni di circostanza, si metteva in disparte, magari in fondo, non pregava, non si segnava né faceva alcun gesto di appartenenza fideistica. Anche il nonno materno – dunque il marito della suocera di cui sopra – era ateo, in questo caso ateo dichiarato. Un uomo che si dilettava di studi scientifici, in modo particolare astronomici, pur essendo un disegnatore delle ferrovie dello Stato. Mamma non andava mai in chiesa. Quando casualmente capitava, anche lei non pregava. In casa nessuno ci ha mai parlato di divinità o ci ha catechizzate (siamo due sorelle). Però ci battezzarono e poi ci fecero frequentare una scuola salesiana, per motivi di famiglia. Infatti portavamo il cognome materno, i miei non erano sposati e babbo aveva una ex moglie con altri figli. La cosa, negli anni ’60, andava nascosta, e le suore ci facevano la doppia pagella, quella ufficiale, accuratamente occultata dai miei, e quella ufficiosa, con il cognome paterno. Ecco, lì ricevetti la mia educazione religiosa, che attecchì bene in una personalità predisposta, forse a causa di una forte emotività di base.
Da bambina per me era facile aderire alla fede cristiana. Feci Comunione e Cresima convinta. Poi verso i 12 o 13 anni mi allontanai, ma più per pigrizia che altro. Nel tempo elaborai un mio modo di credere: «Credo, ma non nella Chiesa». Tra l’altro rimasi inorridita, durante gli anni scolastici, dalle storie dell’Inquisizione, e ciò influì enormemente sul lungo percorso verso l’apostasia (ufficializzata nel 2017). Arrivata poi verso i 25/26 anni, sentivo il desiderio di una comunità e anche di uniformarmi. Mi dissi: «Beh, in fondo questo dio si sarà rivelato nel tempo e nello spazio in millemila modi diversi, con differenti linguaggi e narrazioni, io sono in Italia, qui ci sono i cattolici, mi unisco a loro, tanto una religione vale l’altra». Tutto comunque sempre a mio uso e consumo: Per esempio non credevo nel libero arbitrio – senza avere ancora letto nulla di neuroscienze –, nell’inferno…
Io la fede la «usavo» come uno strumento qualsiasi per rispondere ai miei bisogni emotivi. La Bibbia? La lessi e mi accorsi dei passi controversi, soprattutto nell’Antico testamento, ma anche nel Nuovo (vedi Paolo e la misoginia). Senza ragionamenti particolarmente elaborati, comunque dubitai su tante cosucce che non stanno né in cielo né in terra, tipo la verginità di Maria o la resurrezione (sì, pure quella!). Ma continuavo ad autoilludermi, dandomi risposte simili a quelle che ogni tanto sento dagli apologeti. Le vie del Signore sono infinite, insomma. E quelle della fantasia anche di più.
Le regole? Non rispettate perché non comprese. Parlo della sessualità, soprattutto. Il mio secondo matrimonio fu in Chiesa, da credente, così credente che non volli regali: tutto devoluto ad aiuto per immigrati e a un’associazione locale che si occupa di affidi. Al prete lo dissi, che avevo rapporti sessuali prematrimoniali, perché mi pareva assurdo non averne. E niente, bastava confessarsi dopo pippone di rito e tornavi come nuova. Ricordo che lui insistette in modo morboso su una questione: se fossi mai ricorsa alla IVG. Forse quello sarebbe stato un peccato proprio mortale? Dopo qualche anno, nel 2000, mi separai di nuovo e nel 2005 conobbi il mio attuale marito.
Chicca: il coniuge uscente era ateo, infatti quando ci sposammo non fece la Cresima, dopo aver frequentato il corso ed essersi accertato che non poteva credere in quella roba lì. Si ebbe quindi la dispensa del vescovo. Lui non fece la Comunione durante la cerimonia nuziale, e qualche parente criticò la scelta «perché le foto venivano male»: io inginocchiata in meditazione e lui in piedi, orrore! Personalmente questo gesto di rispetto lo apprezzai assai, rimanendo però scandalizzata da chi dimostrò, al contrario, quell’ipocrisia e quella superficialità che il popolo dei cattolici non manca di palesare.
La mia nuova fiamma invece, pur essendo astronomo e del CICAP, era cattolico, ma davvero a modo suo, visto che non credeva nella vita dopo la morte, per esempio, o nella preghiera per chiedere (e ottenere). Adesso è ateo pure lui. Non antireligioso come me, ma questa è un’altra storia e se un giorno vorrà ce la racconterà lui stesso. Comunque insieme frequentavamo a Firenze una parrocchia alternativa. Mi viene da dire «radical chic», perché alla fin fine, se il Magistero della Chiesa dice delle robe, tu non puoi far finta di essere «accogliente» ad esempio dando la Comunione a noi che, separati o omosessuali, non rinunciamo a una sana (ma peccaminosa) vita sessuale.
Nel 2009 morirono i miei genitori. Il fatto di poter credere che un giorno li rivedrai potrebbe anche farti rimanere attaccata alla religione. Poi c’è anche il discorso «preghiera», una sorta di meditazione che fa scatenare stati psichici particolari, che ti danno l’illusione di rimanere in contatto con chi non c’è più. Tutto bello, se non fosse che per me l’incredulità nei confronti dell’intero baraccone era sempre stata latente e che le sole cose che la bloccavano erano la mia emotività, quella parte in me irrazionale fuori controllo, e una razionalità per niente coltivata. Sembra banale – e probabilmente lo è – come ho «perso» la fede. «Perso» è virgolettato perché secondo me non si perde proprio nulla, ma si acquista: si acquista lucidità, senza rinunciare a quella sfera emotiva che semmai impari a conoscere, riconoscere e controllare.
Era il periodo di Natale e non avendo più i genitori pensai che sarebbe stato meglio trascorrere le feste laddove invece c’erano, cioè in Friuli, dove entrambi i miei suoceri erano ancora vivi e vegeti (ora è rimasta solo la mamma quasi 94enne). Grande famiglia, nel senso che mio marito ha cinque tra fratelli e sorelle, in più c’erano i suoi genitori, le cognate e i cognati, i nipoti. Niente… ero un po’ depressa. Tutta questa gente mi faceva sentire anche più sola. Non stavo bene per nulla.
Alla Messa di Natale all’improvviso sentii solo un gran vuoto, il vuoto di una religione che non ha da raccontarti né da offrirti nulla. Il vuoto lasciato dai genitori ormai morti e che non si trovano da nessuna parte: inutile girarci intorno. Solo un vuoto riempito di orpelli e falsità di cui non solo non avevo bisogno, ma che si rivelavano anche un disturbo, un sovrappiù inutile, triste e fastidioso. Sentii un impulso irrefrenabile di uscire dalla chiesa. E uscii.
Da lì un nuovo percorso, un altro capitolo della mia vita. La rielaborazione del lutto per un dio morto (e non risorto), ma che non era mai stato vivo perché inesistente, a differenza dei miei genitori: loro sì che erano esistiti! E come già avevo fatto fin dall’inizio, a genitori appena sepolti, mi sono dedicata ai vivi, era quello che mi aiutava davvero: occuparmi dei bambini a scuola – avevo una prima elementare –, ecco ciò che mi serviva, non certo la preghiera, fin dal primo istante rivelatasi inutile.
E comunque la prima persona viva di cui occuparsi ero io. Io senza dio. Libera.
Mora
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