Raffaele M.T. racconta la propria Storia per «Io senza Dio»
Da piccolo parlavo con Gesù. Probabilmente era la fase euforica della mia sindrome bipolare esplosa una ventina di anni fa. E Gesù mi rispondeva pure. Meno male che non sono diventato schizofrenico. Avevo una decina d’anni e veramente credevo di avere un rapporto speciale con il ragazzo barbuto che si era sacrificato per noi.
A 13 anni poi sono finito a studiare musica all’Apostolato Liturgico, ma avevo già i miei dubbi circa il Gesù parlante. A dir la verità avevo anche qualche remora circa il Gesù realmente esistente nel cielo. In pratica ero già inconsapevolmente ateo.
Raggiunti i 15-16 anni, ero ormai completamente lontano dalla religione cattolica e dalle sue divinità e pseudo-divinità. L’impatto che provavo con i riti e le abitudini cattoliche era di enorme fastidio. L’espressione tipica che mi usciva dalla bocca se si parlava di riti e simili era «Che palle!».
Però è innegabile che la Chiesa è sempre stata un polo di attrazione, soprattutto per chi come me è nato nei Sixties e ha vissuto la sua fanciullezza per le strade del quartiere. Un quartiere che all’epoca era pieno di giovani e che trovandosi in una zona collinare e decentrata della città era tranquillo e privo di pericoli. Si giocava a pallone per la strada, anche perché passava un’auto ogni morte di Papa. E le strutture clericali, con il cinema-teatro, il chiostro, l’enorme salone dove poter trascorrere interi pomeriggi a giocare a calcio-balilla e a ping pong e soprattutto il campetto di pallone erano un bel polo di attrazione.
Ma la Chiesa funziona così: ti cattura fin da piccolo. Noi siamo animali sociali e sentiamo forte il desiderio di appartenere a un gruppo per riuscire a esprimere la nostra singolarità. E la Chiesa fa questo: crea l’appartenenza a un gruppo. Molto forte, tra l’altro.
Venendo poi a mancare questa appartenenza sociale, è stato un attimo buttarsi a capofitto nel buddhismo. Ai miei tempi era immancabile questa forma di spiritualità legata all’Oriente mistico e sconosciuto, e il buddhismo era una risposta che sembrava soddisfacente. Rispondeva alla richiesta di socialità e aveva anche quelle risposte su chi siamo e dove andiamo (soprattutto la morte) che ci portiamo dietro. Ma alla fine anche il nam myoho renge kyo mi è diventato stretto e l’ho buttato via.
La mia «spiritualità», se vogliamo chiamarla così, è stata appagata in primis dal diventare un lupo solitario e poi si è saziata con il contatto che ho instaurato con la natura e con l’arte. Musica, pittura, scultura, cinema hanno assorbito la mia vita e mi hanno donato felicità e serenità: in pratica il cibo corretto per la mia personale «spiritualità».
Con il tempo, mi sono sempre disinteressato alle religioni. Non mi hanno mai infastidito più di tanto. Esistevano ma non mi infastidivano.
Da un po’ di tempo a questa parte invece hanno iniziato a disturbarmi. Non so se è colpa dei fatti di cronaca in cui sono state coinvolte. Pensiamo di solito agli attentati islamici, ma non solo. Oppure se dentro di me è sorta una «consapevolezza» rabbiosa che tende a pensare che in fondo il tempo passato a fianco della religione mi abbia tolto realmente qualcosa. Qualcosa che poi non riesco nemmeno a ben specificare. Però è così: ho iniziato a non sopportarle. Forse è meglio dire di provare avversione per religioni e divinità varie. Anche se sono qua, in un sito dove si parla comunque di religioni e divinità.
Come ebbi a dire già tempo fa, credo che, con l’avvicinarsi della vecchiaia e il tempo sempre minore a propria disposizione, nasca il desiderio di sapere se la morte è realmente la fine di tutto. Tutto sommato le chiacchiere che le religioni ti ficcano nella testa sono altamente consolatorie sotto questo punto di vista. O forse, nella mia euforia bipolare, mi ritengo troppo importante per morire e non sapere che cosa succederà in futuro, come, quando e perché finirà il mondo, se esistono gli alieni e se hanno il raggio della morte, e soprattutto se la Roma vincerà lo scudetto e la Coppa dei Campioni, che ora si chiama Champions League.
Raffaele M.T.
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Le religioni in effetti ci danno una risposta a quel senso di vuoto che tutto sommato ci attanaglia. Chi siamo, come e perchè. Tutto sommato siamo animali curiosi, molto curiosi, ma soprattutto abbiamo molta, troppa, paura.
Ciao Raffaele, vorrei anch’io una risposta al tuo ultimo quesito.
Ma credo che un indicazione nel tuo racconto ci sia…quando parli di .
Un tramonto, un neonato, la sofferenza altrui…in quasi tutti gli individui suscitano qualcosa e su questo le religioni attuano il loro marketing…rispondono ad un bisogno atavico di risposte. Forse finiamo per farci troppe domande perdendo di vista il qui e ora. Ma sto divagando….magari ne riparliamo dopo un’altra notte di coppe e di campioni.