L’Eterno Assente propone a chi è ateo/a di raccontarsi.
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Beh! Concordo con Sylvia e anche con Choam: stabilire un dialogo con altre persone è nel DNA umano. Ognuno deve sentirsi libero di esprimere le proprie convinzioni, i propri pensieri, ma anche aperto ad ascoltare ciò che gli vien detto.
Come non credente affronto lo scambio di idee sostenuto da basi scientifiche e razionali, che espongo, magari in contrapposizione con le “certezze” del credente, Ma senza pretendere di convertire le convinzioni dell’altro, anche perché… sostenuto ciecamente dalla fede… difficilmente “tornerà sui suoi passi”.
In generale non vorrei chiudere la porta del dialogo a una intera categoria di persone, peraltro molto presenti su questo pianeta; nella realtà però dipende dalla persona credente, e soprattutto dal dialogo che si può intavolare.
Un dialogo con i credenti che troverei molto interessante è per esempio quello che parla del loro sentimento della fede: cosa intendono quando dicono “ho una spiritualità” o “sento che c’è un Qualcosa di benevolo”? Non ho interesse di andare a discutere se le prove di quel Qualcosa ci siano effettivamente, perché sono convinta che questa sensazione derivi da loro, e non dal Qualcosa (come invece pensano loro); ma mi incuriosisce sapere se questa sensazione è descrivibile, e se lo è, che forma prende in diverse persone credenti; e poi, da quando l’hanno sentita? Da sempre, oppure no? Ci sono dei momenti in cui si è affievolita? E cosa era successo in quei momenti? E in quelli in cui si è accresciuta, invece?
Un dialogo che invece non troverei utile è quello in cui io cerco di convincere un credente che quel Qualcosa non c’è, o quello/quella cerca di convincermi che quel Qualcosa c’è, perché so già la conclusione di questo dialogo: niente in questo mondo suggerisce che ci sia un qualsiasi tipo di divinità, e questo fa in modo che affermare “Dio esiste” richieda di portare delle prove molto convincenti; ma ai credenti tutto questo non importa nulla, perché loro hanno fede, e questa fede è ciò che alla fin fine permette loro di dire “non importa se non ci sono prove, io ci credo lo stesso”. Al che torniamo all’esempio iniziale: è più interessante indagare questo sentimento che stare a discutere se Dio esista o meno.
Troverei utile un dialogo in cui io spiego a qualcuno la posizione atea, posto che questo qualcuno me l’abbia chiesto, e posto che lo abbia fatto perché veramente curioso di conoscerla. Potrebbe essere utile anche rispondere ad alcune obiezioni tipiche dei credenti a fronte dell’ateismo (“Se Dio non esiste, allora perché c’è il bene?” o “Che senso dai alla tua vita?”), posto che 1) gli interessi sul serio, e non lo chiedano solo per provocare e 2) rispondano anche loro a domande analoghe, eventualmente rigirate (“Se Dio esiste, allora perché c’è il male?”).
Altri esempi al momento non me ne vengono in mente; sono pochini, è vero, ma d’altro canto molto di ciò che impegna le loro discussioni — cioè, “Cosa intendeva il nostro testo sacro in questo punto?” — è di scarsissimo interesse per me, visto che dal mio punto di vista si sta chiedendo cosa intendessero degli esseri umani di almeno duemila anni fa nello scrivere un testo che per gran parte non ho letto. Se poi “il punto” in questione è uno in cui si dice una porcheria misogina, razzista od omofoba, la riflessione perde ancora più valore, visto che qualunque cosa intendesse, faceva schifo.
Vediamo se ho capito, riassumendo…
Secondo te il dialogo con i credenti può essere solo
– esposizione delle proprie convinzioni oppure
– richiesta di chiarimento sulla sostanza delle convinzioni altrui oppure
– risposta alle obiezioni contro le proprie convinzioni
ma senza alcuna pretesa di modificare le convinzioni altrui, ché tanto è impossibile perché loro hanno la fede e contro la fede non c’è argomento razionale che funzioni.
Be’, sono d’accordo con te.
Choam, io riconsidererei la tua conclusione “tanto è impossibile perché loro hanno la fede ecc.”.
Gran parte degli atei non sono nati tali: le loro famiglie e ambienti sociali hanno scelto di crescerli nella “fede comune”. Ma ad un certo punto, la ragione, il buon senso, la cultura, hanno avuto il sopravvento, liberandoli dalle superstizioni e dai riti.
A mio parere quindi gli argomenti razionali funzionano, quando sono ben posti e verso persone con un minimo di ragionevolezza.
Mmm… sì e no, Giulio.
Sì, perché è vero che la grande maggioranza degli atei ha attraversato un processo di deconversione, quindi prima aveva la fede e poi non ce l’aveva più, perciò gli argomenti razionali funzionano contro la fede. In questo hai ragione.
Ma anche no, perché qui stiamo parlando del dialogo individuale e diretto con i credenti. A te sembra verosimile che tu, parlando a tu per tu con un/a credente, riesca a demolire la sua fede? Se ci riesci, mitico! 🙂
Il processo di deconversione – per come la vedo io, eh – è lungo e complicato e frutto non solo del dialogo con una singola persona.
Buongiorno, io penso che il dialogo tra persone che la pensano diametralmente opposte sia poco costruttivo, se una delle parti risulti un po moderata. C’è anche da dire che, secondo me, alcune persone non riescono a non credere, sono chiuse dentro una camera sicura e aprire la porta lì destabilizzerebbe forse troppo, hanno paura della morte come tutti ma fanno finta che non esista. Dobbiamo forse tornare ad un concetto: siamo esseri finiti e un giorno scomparire o senza una data precisa, senza un dopo. È triste camminare nel mondo e non lasciare un impronta, sparire e non essere ricordati. Nascere senza concetto di Dio è un vantaggio, crescere in un ambiente credente e poi diventare Atei è più complicato.
Per i credenti di solito no, perché loro hanno la fede, che difficilmente può essere scalfita dalla razionalità. Per gli atei a volte sì, perché costringe a formulare con chiarezza i propri argomenti.