Breve storia di Dio

Dalla Natura fino all’astrazione totale.


Dio muta, cambia, evolve. Ovviamente non Dio, bensì il concetto di Dio. Dario ripercorre la sua storia e osserva un Dio che passa dalla Natura all’umanità alla trascendenza, diventando sempre più impalpabile, rarefatto, indefinibile. E alla fine scompare.


Dio non è nato onnipotente, onnisciente e imperscrutibile. Non è sempre stato un’entità fuori dallo spazio e dal tempo, perfetta e assoluta. È stato prima bestia, poi uomo, poi idea. Un concetto che si è adattato ai bisogni delle civiltà, cambiando pelle per sopravvivere alle epoche.

Il divino – come concetto, poco importa se si parla di politeismo o di monoteismo in questo caso – ha attraversato tre fasi fondamentali.

  1. Dio ctonio – Legato agli elementi, alla terra, agli animali, ai fulmini e ai vulcani. Un’entità feroce, cieca e spietata, come la Natura.
  2. Dio coevo – Antropomorfo, passionale, invadente. Un’entità che interagisce con il mondo, si innamora, punisce, si vendica e partecipa alla vita degli uomini.
  3. Dio uranio – Perfetto, astratto, fuori dallo spazio e dal tempo. Non più visibile, non più parlante, non più tangibile.

Più gli esseri umani hanno capito il mondo, più Dio si è ritirato nell’intangibile. Da potenza visibile a concetto puro. Da forza brutale a speculazione filosofica. La storia di Dio è la storia della sua graduale sparizione.

1. L’era ctonia: la paura della Natura

I primi dèi non hanno volti umani. Non parlano, non hanno leggi, non distribuiscono premi e punizioni morali. Sono il fuoco che brucia, il fiume che sommerge, la tempesta che devasta. Il sacro è tremendo e immediato, incarnato nelle forze che l’uomo non comprende e non controlla.

In questa prima fase gli dèi possiedono alcune caratteristiche.

  • Sono zoomorfi o elementali: animali sacri, spiriti della foresta, fuoco divino, montagne sacre.
  • Sono neutri, amorali, caotici: né buoni né cattivi, esistono e basta.
  • Vengono adorati per paura: i riti servono a placarli, non a ottenere amore o saggezza.
  • Sono limitati e locali: ogni tribù ha il proprio dio del fuoco, il proprio dio della pioggia.

Questa fase è ben documentata da Mircea Eliade e Georges Dumézil, che analizzano le religioni animistiche e tribali. Le divinità ctonie rappresentano il sacro come esperienza diretta e non ancora codificata, un misto di rispetto e di terrore per le forze della natura.

Ma la paura da sola non basta. L’uomo vuole qualcosa di più vicino, più simile a sé.

2. L’era coeva: gli dèi scendono sulla Terra

Con l’avvento delle civiltà, il concetto di divinità si trasforma. Il mondo ha bisogno di dèi che governino, giudichino, proteggano, combattano. Nascono i pantheon.

Nella seconda fase le caratteristiche degli dèi cambiano.

  • Sono umani, passionali, coinvolti: si innamorano, tradiscono, si arrabbiano, fanno guerre.
  • Interagiscono direttamente: si mostrano in oracoli, combattono accanto ai re, si rivelano nei sogni.
  • Diventano legislatori: le prime leggi divine emergono per giustificare il potere dei sacerdoti e dei re.
  • Si moltiplicano: il politeismo è perfetto per una società gerarchica, con un dio per ogni funzione.

Gli dèi smettono di essere forze misteriose della natura e diventano figure di riferimento sociale e politico. Sono ancora parte del mondo e le loro storie si intrecciano con quelle degli uomini.

Karl Jaspers, con la sua teoria dell’Epoca Assiale (K. Jaspers, «Origine e senso della storia», 1949), identifica questa fase come il punto in cui le religioni si istituzionalizzano e si fondono con l’organizzazione del potere. Anche Friedrich Schelling ha esplorato il concetto della religione come costruzione evolutiva legata al pensiero umano (F. Schelling, «Filosofia della mitologia», 1842).

Ma più Dio si comporta da umano, più diventa vulnerabile. Perché un Dio può essere ingannato? Perché ha desideri, emozioni e limiti?

È necessario un cambiamento. Dio deve sparire per sopravvivere.

3. L’era urania: Dio evapora nella metafisica

Dio non può più essere un sovrano capriccioso che interviene nelle vicende umane. Troppi errori, troppi paradossi, troppe domande scomode. Dunque si fa puro concetto.

Nella terza fase le caratteristiche di Dio evolvono ancora.

  • Non è più visibile, non è più parlante, non è più tangibile.
  • È fuori dal tempo e dallo spazio: non si trova più sulla Terra, ma in un altrove indefinito.
  • È imperscrutabile: qualsiasi domanda su di lui diventa inutile perché «Dio è oltre la comprensione umana».
  • È unico e assoluto: scompare il politeismo, Dio diventa un’idea totalizzante.

Più Dio si allontana dalla realtà, meno è attaccabile. Non può più essere smentito perché non può più essere verificato.

Questa evoluzione è stata discussa anche da Max Scheler, che vede il monoteismo come una progressiva astrazione del divino, necessaria per adattarsi alle nuove strutture sociali (M. Scheler, «La posizione dell’uomo nel cosmo», 1928).

L’obiezione dei credenti: Dio non è solo una costruzione umana?

Un credente potrebbe rispondere: «Il fatto che l’idea di Dio sia cambiata non significa che non esista davvero. Potrebbe essersi rivelato in modi diversi nel tempo!».

Ma, se Dio è eterno e immutabile, perché la sua rappresentazione è cambiata così radicalmente? Se la verità è unica, perché ogni epoca e cultura ha avuto un’idea diversa di Dio?

L’evoluzione del concetto di Dio suggerisce che il divino non è una costante bensì un adattamento. Un’entità che si modifica per sopravvivere è indistinguibile da un’idea umana che si evolve per rimanere rilevante.

Se Dio fosse stato davvero sempre lo stesso, perché all’inizio era un fiume, poi un uomo, poi un pensiero?

Conclusione: la grande ritirata del divino

La storia di Dio non è la storia della sua rivelazione progressiva, ma della sua graduale scomparsa.

  • All’inizio era ovunque: nei tuoni, nei boschi, nei vulcani.
  • Poi è diventato umano ma con più poteri e si è mescolato alle vicende della Storia.
  • Infine ha abbandonato il mondo, è diventato un concetto, si è reso intoccabile.

Più l’uomo ha scoperto come funziona il mondo, più Dio è diventato un’idea astratta.

Oggi Dio è arrivato al punto finale della sua ritirata: non si manifesta, non interviene, non si dimostra. Esiste solo nella mente di chi crede.

Non è stato l’uomo a sbarazzarsi di Dio. È stato Dio a sbarazzarsi del mondo, per non dover più rispondere alle domande.

Ma, se un’idea ha bisogno di diventare intangibile per sopravvivere, non è forse indistinguibile dal nulla?

Dario


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17 pensieri su “Breve storia di Dio

  1. La grande ritirata del Divino indica che essendo soggetto a innumerevoli evoluzioni diviene indefinibile e quindi si perde nell’infinita’ che indica ogni cosa. (Viene infatti definito infinito)
    Ma ogni “cosa” è il caos nel quale si potrebbe secondo criteri logici ristabilire un ordine, un sistema che poi diviene la realtà.
    Secondo i nostri criteri umani è accaduto un grandie evento evolutivo e complesso ,ancora in atto , che i religiosi definiscono con la parola Dio che indica onnipotenza, ubiquita’ e informazioni (onniscenza).
    Da anni cerco di capire cosa indichi Dio ed in effetti è un concetto umano che scaturisce dall’osservazione del mondo nel quale siamo immersi.
    Inconsapevolmente analizziamo noi stessi le nostre origini e i nostri traguardi ,soggetti a diverse variabili nonostante ci fossero delle costanti che sarebbero le leggi fisiche ,sovrane in tutto l’universo.

    • Ciao Concetta,

      grazie per il tuo commento, ricco di immagini suggestive e riflessioni profonde.

      Mi sembra che tu stia cercando, con grande onestà intellettuale, di conciliare l’idea di un “principio” sfuggente alle definizioni rigide ma che lascia tracce nell’universo. Apprezzo molto questa tensione verso la comprensione. È vero: il concetto di Dio nasce come tentativo umano di dare ordine al caos, nominare ciò che sfugge e attribuire senso all’evoluzione e alla complessità che ci circondano. In questo senso, è figlio dell’esperienza e dell’osservazione, non della rivelazione.

      Tuttavia, è curioso notare come l’essere umano disponga già di un vocabolario per esprimere concetti come “ignoto”, “infinito”, “nulla”, “tutto”, “futuro”, “universo”, “natura”. Eppure, spesso sente il bisogno di sostituire questi termini con la parola “Dio”. Questa sostituzione potrebbe riflettere una delusione della coscienza che, comprendendo la propria finitezza, crea ciò che non è per scongiurare ciò che è, proprio come Parmenide cercava di evitare con il suo rifiuto del “non-essere”.

      Inoltre, secondo Telmo Pievani, filosofo della scienza, l’origine del concetto di Dio potrebbe risalire a una necessità primitiva di affrontare l’ignoto e le incertezze. In tempi antichi, di fronte a fenomeni naturali incomprensibili e pericolosi, attribuire tali eventi a entità superiori o divine poteva servire come strategia adattativa per spiegare l’inspiegabile e mitigare l’ansia derivante dall’incertezza. Questa tendenza avrebbe portato allo sviluppo di credenze religiose come meccanismo per dare senso al mondo e alle sue imprevedibilità.

  2. Sono l’autore dell’articolo e vorrei fare una precisazione:

    Nel testo si afferma che il politeismo è “scomparso”, ma è bene precisare che si intende il politeismo classico (giudaico-persa-greco-romano), in cui le divinità avevano un ruolo diretto, sociale e attivo, come dimostra per esempio la funzione degli oracoli. Non si fa quindi riferimento a tradizioni tuttora esistenti come l’Induismo, che conserva strutture politeistiche in contesti molto diversi.
    Inoltre, per esigenze di sintesi e leggibilità, l’articolo non ambisce a essere un trattato esaustivo: mi scuso quindi in anticipo se alcune parti rilevanti sono state omesse o semplificate.

  3. Al Cattolico si chiede semplicemente di credere in un Dio che ha sacrificato se stesso a se stesso per salvare l’umanità da se stesso.

    Tutto qui.

    • Esatto. Una sintesi perfetta dell’assurdo in forma liturgica: un Dio che crea l’uomo imperfetto, lo condanna per ciò che ha creato, poi sacrifica se stesso a se stesso per salvarlo da se stesso. E il tutto diventa dogma.

      Ma va anche precisato: al cattolico non viene chiesto tutto questo da Dio, bensì da altri uomini — attraverso un costrutto chiamato “religione”, fatto di libri scritti da esseri umani che dicono di parlare per conto di Dio. In realtà, non si crede in Dio, ma nella traslazione umana della sua presunta volontà, cioè in un’interpretazione arbitraria, moltiplicata nei secoli e trattata come verità assoluta. Si crede, insomma, nel pensiero di altri uomini su Dio. Non in Dio.

  4. Ottima sintesi storico-filosofica.
    Aggiungerei la celebre e iconica affermazione di Schopenhauer : “E’ l’uomo che ha creato Dio a sua immagine …” per precisare che nasce qui, in queste parole, la quarta fase (secondo la tua classificazione) che è “la morte di Dio” (Nietzsche).
    Tuttavia, se diamo per morti tutti gli dei delle religioni predicate, non possiamo trascurare la possibilità di una idea di dio vaga e probabilistica, cioè l’ipotesi (dico: ipotesi) di un principio immanente nella realtà secondo la famosa definizione spinoziana del “Deus sive Natura”. Per la precisione: prima di Spinoza l’aveva già formulata Giordano Bruno.

    • Grazie per il contributo. Schopenhauer e Nietzsche sono senz’altro i due chiodi sul coperchio della bara della divinità classica, e concordo: quell’affermazione “l’uomo ha creato Dio a sua immagine” è la chiave di volta del disincanto moderno. Da lì in poi, ogni religione diventa antropologia travestita da metafisica.

      La tua osservazione sulla “quarta fase” è stimolante e degna di un approfondimento. Nella mia trattazione ho volutamente ignorato la declinazione “panteistica” (Spinoza, Bruno, ma anche Teilhard de Chardin in salsa tecno-fideistica) perché, seppur suggestiva, è più una sublimazione filosofica del concetto di ordine naturale che una teologia in senso stretto. In realtà “Deus sive Natura” è un modo elegante per dire che Dio è tutto ciò che esiste, ma se tutto è Dio, allora niente lo è davvero.

      Anche ammesso che esista un principio immanente o una forza generatrice dell’universo, attribuirle il nome “Dio” è un atto poetico, non una prova ontologica. Per assurdo, potrei divinizzare i miei genitori, perché effettivamente mi hanno creato. Ma questo non li renderebbe onniscienti, onnipotenti, né degni di culto. Sarebbero comunque umani, fallibili, limitati.

      Allo stesso modo, un “Dio” naturale o probabilistico non ha nulla a che vedere con la divinità come intesa dalle religioni storiche. È un’ipotesi filosofica interessante, certo, ma non salva il concetto di Dio: lo dissolve.

      • Grazie Dario per la tua cortese replica. Posso continuare il discorso? Se sì, continua a leggere. Sarò breve.
        Ho l’impressione che l’ateismo sia nichilista e allo stesso tempo fideista. Nichilista perché nega in modo assoluto la possibilità che esista un “principio”; fideista perché ipotizza (imitando grossolanamente la scienza), un infinito che nessuno sa dire cosa sia. Dire infinito equivale a dire inconoscibile, anzi inimmaginabile. Affermare che l’essere (l’esistente, l’universo, lo spazio, il tempo …) sia infinito, non è pure questa una fede?
        Convengo con te che questo infinito non ha nulla di divino, anzi è la negazione di ogni religione positiva.
        Ma se una Natura esiste (come negarlo?), allora scrivo una formula logica: Deus = Natura = Infinto.
        Anche qui c’è della fede. E’ innegabile. Ma è una fede basata sul “buon senso” del conoscibile e del verificabile.
        Concludendo: credere è una caratteristica dell’intelletto umano, ed è ciò che ci distingue dagli animali e (guarda un po’?) pure dall’I.A.
        Penso che il credere sia connaturato all’intelligenza pensante, ma va usato con il buon senso, che è un’altra caratteristica solo umana.

      • Certo che puoi continuare, il dialogo ragionato è sempre benvenuto, soprattutto se impostato con la tua pacatezza.

        Sul fatto che l’ateismo possa essere interpretato come una forma di fede “negativa”, ti rispondo con una distinzione che mi sta molto a cuore. Quando parliamo, ad esempio, di “infinito”, stiamo maneggiando un concetto limite, sicuramente imperfetto, ma non è qualcosa in cui si crede in senso fideistico. L’infinito, per come lo uso io, è un’ipotesi, una valutazione asettica basata sull’osservazione o sulla coerenza logica in determinati modelli: non comporta alcun tipo di abbandono spirituale, né ha implicazioni morali, esistenziali o comportamentali. Nessuno si sveglia la mattina e decide cosa fare in base all’infinito. È un’astrazione senza volontà, senza giudizio, senza relazione con l’umano.

        La fede – quella vera, strutturata – è invece sempre relazionale. È fede in qualcosa che ha (o si presume abbia) coscienza, intenzione, impatto, giustizia, castigo o amore. È, come dici tu, una caratteristica profondamente umana, ma direi che è anche un tentativo di stabilire un ponte con l’ignoto, che però pretende una risposta. L’infinito non pretende nulla. Dio, invece, sì.

        Ecco perché non trovo corretto dire “ho fede nella scienza”: la scienza non è misterica, non è una persona, non vuole nulla da noi. La scienza restituisce risultati tangibili, verificabili, falsificabili. Se domani un esperimento smentisce una teoria, quella teoria cade. Se invece una fede religiosa viene messa in dubbio, si difende con l’imperscrutabilità o la rivelazione. Sono due piani completamente diversi.

        Infine, condivido in parte la tua idea di credere come tratto umano distintivo, ma vorrei distinguere tra “credenza” come fiducia temporanea in un’ipotesi (che tutti adottiamo) e “fede” come adesione profonda, non negoziabile, a una verità non dimostrabile. La prima è utile. La seconda, se non messa in discussione, può diventare pericolosa.

  5. Complimenti Dario! La tua sintesi sull’evoluzione della divinità mi sembra interessante, chiara ed evidente, a meno che si abbiano i paraocchi blindati dalla “necessità” della fede.

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