Quello abramitico è assurdo, ma quello filosofico non se la passa molto meglio.
Ancora un guest post de L’Eterno Assente. Mattia Fabbri, docente di storia e filosofia, riflette sul concetto filosofico di divinità.
Spesso da parte laica si contrappone il Dio filosofico al Dio abramitico per mostrare come il secondo sia molto meno credibile del primo: basti pensare alle tantissime contraddizioni presenti nelle Scritture, all’insolubile problema della teodicea, ai suoi ineliminabili antropomorfismi eccetera. Sicuramente il Dio dei filosofi, nella sua assenza di caratteri antropomorfi e nella sua totale estraneità alle religioni, appare molto più difendibile rispetto a quello della Bibbia o del Corano. Non è un caso che molti filosofi laici (ad esempio i deisti) lo abbiano sostenuto con argomentazioni apparentemente razionali o che venga considerato un’ipotesi interessante anche da molti di coloro che si dichiarano atei e agnostici. Eppure, a una riflessione più attenta, anche il Dio filosofico risulta poco consistente e attendibile come ipotesi.
Prendiamo ad esempio uno dei concetti filosofici di Dio maggiormente diffusi e accettati, ovvero il Dio concepito sul modello del Demiurgo platonico. Questo concetto di Dio non è affatto esente da criticità: infatti, così come un puro spirito – qualunque cosa significhi questa parola –, questo Dio non può estrinsecare la materia, essendone ontologicamente agli antipodi, e allo stesso modo non può neppure plasmarla, organizzarla o modellarla secondo determinate strutture. Come potrebbe un principio assolutamente immateriale interagire con la materia, pur non avendo con questa alcun tipo di analogia o punto di contatto? E perché postulare un ipotetico «spirito» che pone solo delle aporìe in più, quando è possibile concepire un universo eterno che si auto-organizza dall’eternità in base alle proprie leggi immanenti? Nella concezione platonica il Demiurgo viene posto solo come intermediario tra le Idee e la materia: le prime sono i modelli a cui si ispira la sua azione ordinatrice, la seconda invece è la realtà originariamente caotica e disordinata (in greco «chora») da plasmare e organizzare secondo forme geometriche.
Quindi per Platone due princìpi sono eterni: la materia-chora, il Demiurgo e la sua azione modellatrice. Serve quindi un anello di congiunzione che unisca due realtà diverse ed eterogenee. Il Demiurgo, per svolgere la propria funzione, dovrebbe partecipare sia dell’una sia dell’altra. Ed è proprio qui – come dicevo – l’aporìa in cui incappa Platone: tale principio infatti è immateriale come le Idee. Dunque non può avere punti di contatto con la materia-chora, a meno che non si voglia affermare che è anche materiale. Ma come può essere immateriale come le Idee e al contempo materiale come la chora? E, se non ha punti di contatto con la materia, come può interagirvi per organizzarla secondo criteri geometrici? Del resto il problema del rapporto tra Dio (incorporeo) e la massa-energia dell’universo è analogo a quello tra l’anima immateriale e il cervello. Problema mai risolto da Cartesio, che postulava la coesistenza e l’interazione nell’uomo della res cogitans con la res extensa e si era inventato la contraddittoria «soluzione» della ghiandola pineale nel tentativo di far quadrare i conti. E problema che costituisce la principale spina nel fianco di tutte le filosofie dualiste.
Consideriamo ora un altro noto concetto filosofico di Dio: quello aristotelico di «motore immobile», che avrebbe la funzione di spiegare il mutamento. È facile osservare che il paradigma cosmologico che rendeva necessaria tale spiegazione filosofico-teologica è ormai superato da secoli e oggi, se consideriamo l’attuale visione scientifica dell’universo e tutto quello che conosciamo delle sue leggi e dei suoi processi fisici, non sembra affatto necessario postulare motori immobili o cause prime immutabili. Inoltre risulta incomprensibile che il movimento possa derivare da una realtà completamente immobile o il mutamento da un’entità per definizione assolutamente immutabile.
Un Dio indivenibile del resto sarebbe completamente al di fuori del tempo e dello spazio e quindi non potrebbe né generare effetti né subirne, dato che per poter causare o subire qualcosa è necessario essere calati all’interno della dimensione temporale. Ma ha senso considerare «esistente» un’entità del genere? Molti filosofi (ad esempio il tardo Platone, gli stoici, gli epicurei, Hobbes, d’Holbach eccetera) hanno definito come «esistente» tutto ciò che può agire (provocare effetti/mutamenti) o patire (subire effetti/mutamenti). In base a tale definizione, che condivido, risulta quanto meno problematico poter definire «esistente» un qualunque «essere» collocato al di fuori dello spaziotempo.
Aristotele, per spiegare il movimento dell’universo senza compromettere la perfezione divina, sosteneva che gli enti naturali tendessero verso Dio come l’amante tende verso l’amato o l’amata. In altre parole, il mutamento degli oggetti veniva spiegato in termini finalistici, perché questi erano considerati teleologicamente orientati verso il principio supremo che quindi poteva muovere senza muoversi, in modo meramente attrattivo. Spiegazione molto affascinante e ingegnosa, senza dubbio. Tuttavia assolutamente obsoleta e improponibile nell’attuale contesto cosmologico, dove sono state completamente accantonate le «cause finali», in quanto prive di attendibilità scientifica.
Altri modelli filosofici di Dio tendono a identificarlo con l’ordine del cosmo, ovvero con il suo Logos immanente: è il caso ad esempio dello stoicismo e della metafisica spinoziana. È la concezione panteistica di Dio, che ha conosciuto ovviamente tante sfumature e declinazioni differenti ma che ruota attorno al comune denominatore di concepire Dio e la Natura come un tutt’uno, senza dualismi. Il vantaggio di questa concezione è quello di aggirare l’annosa questione del passaggio da Dio (perfetto, immutabile e immateriale) al mondo (imperfetto, mutevole e materiale).
Nondimeno, come ebbe a dichiarare Schopenhauer, il panteismo soffre di un grande problema: non dice nulla di nuovo. Si limita semplicemente ad arricchire la lingua di un nuovo vocabolo. Perché chiamare «Dio» il mondo o la sua struttura razionale quando per indicarlo è sufficiente la parola «mondo» o «natura»? Perché questa identificazione tra Dio e ciò che sappiamo già esistere? Quali problemi dovrebbe risolvere tale identificazione? Quali conoscenze ulteriori potrebbe apportare? È evidente – a ben vedere – l’inutilità del Dio panteistico: se tutto è Dio, allora nulla è Dio. «Natura» è un termine meno ambiguo, nonostante la sua genericità: meglio limitarsi a utilizzare quello.
Inoltre va detto che molti panteisti, identificando Dio con la Natura, tendono a dare di questa un’immagine unilateralmente positiva, trascurando – o non spiegando adeguatamente – tutti quei suoi aspetti più «matrigneschi» che «materni». Anche un certo panteismo di conseguenza incappa nel problema del Male e in particolare del Male naturale, in quanto considera Dio il Bene per poi identificarlo con la Natura nella sua totalità. I panteismi che non identificano Dio con il Bene ovviamente non sono toccati da questa critica, ma vale per loro l’obiezione schopenhaueriana di cui sopra.
Ci sono altre concezioni filosofiche di Dio, e questo articolo non intende certo essere esaustivo. Tuttavia quelle prese qui in considerazione sono certamente le più note e diffuse.
Mattia Fabbri
(Foto: adrian8_8)
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Credo che dal punto strettamente si debba considerare il concetto di RELAZIONE, ovvero la possibilità o meno di un rapporto, di un punto di contatto, di una continuità ontologica tra un essere divino, con tutti gli attributi che le religioni gli conferiscono e il mondo della natura che comprende ovviamente anche noi. Tale essere divino presenta attributi identici al concetto di Verità, di Logos, di Essere. Ovvero eterno, immutabile, perfetto, Vero, atto puro, incorporeo, omogeneo. Indivisibile,logos cioè pensiero noetico e non discorsivo ovvero coincidente con la Verità, con l’Essere. Ne consegue che tale essere, per essere incontraddittorio con la sua natura NON HA RELAZIONE con alcunché se non con se stesso. Questo lo aveva già detto Aristotele chiamandolo ” Pensiero di Pensiero” .Tuttavia in Aristotele rimaneva pur sempre una relazione, un rapporto, tra il.dio motore immobile e il mondo che si muoveva verso di lui. Ma se si analizza filosoficamente, cioè razionalmente, ovvero in modo non contraddittorio il.concetto di Essere o di Verità non si può attribuire a questi la possibilità di RELAZIONARSI ad altro al di fuori di sé, pena la perdita della incontraddittorieta’ dei concetti di Verità, di Essere. Il dio delle religioni invece pur attribuendo a questo tutti gli attributi di Verità e di Essere ne fa un qualcosa che invece si relaziona continuamente con il.mondo, con rapporti continui. Dalla creazione stessa, ai rapporti verbali e fisici. Un Dio che si adira e che perdona, che premia e manda castighi e diluvi e che guida il suo popolo nella terra promessa guidandolo in sanguinose battaglie e che addirittura manda suo figlio, generato e non creato sulla terra per la salvezza di tutto il genere umano. Un dio con sentimenti, che ama, perdona, ascolta le nostre preghiere, che partecipa continuamente alla nostra vita, che entra nello spazio e nel tempo ecc ecc . O un dio che presenta numerose contraddizioni. Senza parlare poi dei problemi della teodicea. Se ne potrebbe parlare a lungo ma la questione della RELAZIONE credo.sia il punto fondamentale.
Stavo riflettendo su quello che hai scritto e… mi meraviglio che a queste condizioni nessun apologeta non abbia provato a identificare dio nella materia oscura, così “impalpabile” ma con effetti nell’universo tanto potenti da far aggregare le galassie così da creare condizioni favorevoli alla vita. Inoltre potrebbero identificare l’avversario biblico nell’energia oscura che tende a far allontanare il tutto. So che è una stro..ta sia sesqui e sia pedale e che non è giusto dar da mangiare ai trollogeti ma ogni tanto devo scaricare la mente con facezie varie. Grazie per la tua opera di diffusione del ragionamento: è sempre illuminante!!!
Grazie a te che leggi e apprezzi.