Occam: perché funziona?

Perché si può giustificare in modo razionale. E io avevo torto


Degli apologeti bigotti più di tutto mi fa incazzare la disonestà intellettuale: tu gli demolisci un argomento, e loro imperterriti lo ricicciano come se nulla fosse. Negli spazi on line degli atei militanti trovi la critica spietata e cogente degli argomenti cosmologico, ontologico, morale, del fine tuning, della resurrezione di Cristo e di tutto il resto del pattume teologico, ma niente: i bigotti continuano a sfornare video nei quali blaterano della «messa a punto inconcepibilmente perfetta di costanti e quantità naturali necessarie per la vita intelligente», della «legge morale oggettiva» dei «fatti storici inerenti Gesù: la sua morte e risurrezione». E tu ti chiedi: ma ci sono o ci fanno? Sono ottusi o in malafede? Un’opzione non esclude l’altra, nondimeno il risultato è il medesimo: una fatica di Sisifo per gli atei militanti. Però – è ovvio – di disonestà non possiamo renderci colpevoli noi controapologeti. È questione di coerenza, cazzo. E io sono molto fiero della mia disponibilità ad ammettere il mio torto di fronte a un’argomentazione convincente. Proprio come stavolta.

Tutto ha inizio con un video di un’apologeta bigotta, secondo la quale l’onere della prova spetta sia a chi sostiene l’esistenza di Dio sia a chi la nega. Fra i commenti, Konkilhai interviene per contestarla e viene strapazzato in malo modo. Siccome Konky è un cagacazzo come pochi, a propria volta produce un video nel quale, senza nominare la bigotta, demolisce la sua pretesa: e che cazzo, no, l’onere della prova incombe soltanto su chi afferma, non su chi nega. Dopodiché nelle retrovie c’è un confabulare privato fra Konky e Faber Lumière, nel quale – presumo, ché io non c’ero («Se mi sbalio mi corigerete», cit. Wojtyla) – Faber prende una posizione simile a quella della bigotta: l’onere della prova tocca a chiunque. Ne emerge una live in cui Faber e Konky battibeccano, Konky fa casino, Faber lo asfalta. Siccome anch’io sono un discreto cagacazzo, perdo un’ottima occasione per stare zitto e pubblico a mia volta un video per schierarmi con Konky e offrire argomenti in difesa della sua tesi. Argomenti inoppugnabili e definitivi – pensavo io, Dio cane – che sono sicuro asfalteranno Faber.

E invece.

Invece Faber è un osso duro e la successiva discussione nel server Discord de L’Eterno Assente finisce male. Per me.

La materia del contendere è appunto l’onere della prova: chi deve dimostrare che cosa? Solo chi sostiene l’esistenza di un ente oppure anche chi la nega? In assenza di prove per entrambi, la soluzione più razionale è forse la sospensione del giudizio, ossia l’agnosticismo perfetto? Certo che no. Non in ontologia, ovvero la disciplina filosofica che si occupa dell’esistenza. Infatti la copula non è un predicato, l’esistenza non è una proprietà: così Kant demolì l’argomento ontologico di Anselmo. Finché si discute delle caratteristiche di un ente, qualora non ci sia modo di verificare o di falsificare ogni ipotesi, tutte le opzioni restano aperte e allora sì, il giudizio va sospeso. Ma quando c’è di mezzo l’esistenza cambia tutto: spetta a chi afferma – e solo a chi afferma! – produrre una dimostrazione. Non a chi nega. Chi nega deve soltanto stare lì e attendere la prova. Non arriva? Anche ‘sticazzi: l’oggetto non esiste o, se pure esiste, non ce ne frega una minchia ché tanto non ha nulla a che fare con noi.

Questo approccio nasconde un presupposto fondamentale: il principio di parsimonia, noto anche come rasoio di Occam. Il principio è molto antico: risale a ben prima del filosofo francescano del XIV secolo e si trova in Aristotele, Tolomeo, Maimonide, Grossatesta, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. Dopo Guglielmo di Occam compare in Newton e di fatto diventa un caposaldo di tutta la ricerca scientifica: «Nel descrivere la realtà, non usare più ipotesi di quelle strettamente necessarie». Dove per «necessario» si intende «corroborato da una dimostrazione», cioè da qualsiasi argomentazione convincente: deduttiva, induttiva, abduttiva, matematica, osservativa, ‘stocazzo a piacere. Grazie al principio di parsimonia gli scienziati eliminano innumerevoli ipotesi inutili, come il flogisto e l’etere luminifero: poiché non servono più per spiegare le osservazioni, se ne fa a meno.

Il principio trova numerose applicazioni in filosofia. E pure in teologia. Prendiamo la più classica della Grandi domande: perché esiste qualcosa invece che nulla? Il credente risponde: «Perché Dio lo ha voluto». Perché esiste Dio? «Perché sì», replica il credente. «Perché Dio ha in sé la ragione del proprio esistere. Dio è ontologicamente necessario». A questo punto l’ateo ha buon gioco nel rispondere: per quale motivo dovrei concepire un Dio ontologicamente necessario, quando posso fermarmi un passo prima e dichiarare che l’universo stesso è ontologicamente necessario? Insomma qualcosa esiste perché sì e basta. Dio è occamisticamente superfluo e ne facciamo a meno. Il credente potrebbe insistere: «A differenza dell’universo, Dio è per definizione l’ente la cui non esistenza non è nemmeno concepibile». Davvero? Centinaia di milioni di atei la concepiscono senza problemi. E quindi?

Secondo un aneddoto apocrifo, quando Napoleone chiese a Laplace dove fosse Dio nella sua opera «Exposition du Système du Monde», questi rispose: «Citoyen premier Consul, je n’ai pas eu besoin de cette hypothèse». Eh, appunto.

Ma non ti serve spingerti nella filosofia e nella scienza per applicare il principio di parsimonia: lo fai senza neanche pensarci nella tua vita quotidiana. Se all’improvviso si spengono tutte le luci della tua casa, quale spiegazione ti viene in mente per prima? È andata via la corrente oppure le lampadine si sono fulminate tutte insieme?

Attenzione però: il principio di parsimonia non dà la certezza della falsità della soluzione più complicata. Il principio impone soltanto che sia suffragata da prove se vuole essere accettata. Prove tanto più straordinarie e cogenti quanto più è complicata. Se senti un rumore di zoccoli nella strada sotto il tuo balcone, ti viene da pensare a un cavallo o a una zebra? Ovvio: a un cavallo. Se qualcuno vuole convincerti che è una zebra, non può pretendere di essere creduto sulla fiducia: tu la zebra la vorrai vedere. Se poi asserisce che è addirittura un unicorno, tu dovrai esigere un’autopsia all’animale. Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie, sempre in nome del principio di parsimonia.

La magagna nella pretesa dei bigotti di una prova della non esistenza di Dio dagli atei sta nelle sue conseguenze al di fuori della teologia. Se in assenza di prove, come dicono loro, «l’unica posizione ragionevole è l’agnosticismo», allora dev’essere un agnosticismo universale e applicato a ogni singolo oggetto pensabile.

In generale, con le dovute eccezioni in matematica, dimostrare l’esistenza di un oggetto è semplice: «To’, eccolo qui». Punto. Fine. Assai più difficile è provarne la non esistenza, sempre con le dovute eccezioni in matematica. Per esempio nel caso di un oggetto materiale logicamente coerente dovresti cercare in ogni anfratto del cosmo. E non puoi. Vale per Dio, ma pure per i puffi. Siccome nemmeno l’esistenza degli ometti blu può essere dimostrata né falsificata, che si fa? Agnosticismo anche sui puffi? E anche sulle fate, sugli elfi, sui troll, sugli unicorni, sulla teiera di Russell? Ecco il momento esatto nel quale interviene il rasoio di Occam: le ipotesi e gli oggetti inutili, vale a dire non dimostrati, si tagliano. Via i puffi, le fate, gli elfi, i troll, gli unicorni, la teiera di Russell.

Orbene, sull’applicazione del principio di parsimonia sia io sia Faber conveniamo. Divergiamo piuttosto sulla sua interpretazione. Per me è uno stratagemma. Per lui è una vera e propria prova. Ma dunque ‘sto principio di parsimonia che cos’è esattamente?

A me vien da dire: un principio, appunto. Ovvero un assioma non dimostrato né dimostrabile. Uno strumento filosofico di grande efficacia, ma da prendere come assunto di base. Non se ne può fare a meno se non si vuole cadere in un agnosticismo generalizzato verso qualsiasi oggetto pensabile, ma neanche lo si può giustificare sul piano razionale.

In una discussione fra un credente e un non credente nell’esistenza di un oggetto x, l’invocazione del rasoio di Occam da parte del secondo equivale a un rifiuto di presentare la prova, scaricando l’onere sul primo: «Tu dici che x esiste? Dimostralo! Se non puoi, allora per il principio di parsimonia io dichiaro che x non esiste e non devo aggiungere altro». In sintesi: il principio di parsimonia è un espediente per respingere l’onere della prova. Legittimo sul piano razionale – altrimenti si cade nell’agnosticismo universale – e soprattutto a disposizione soltanto di chi nega, non di chi afferma: la differenza rende le due posizioni asimmetriche e non equivalenti.

Faber però non è d’accordo. Per lui il principio di parsimonia, lungi dall’essere una petizione di principio, può essere argomentato e difeso, ricordandone la formulazione probabilistica: «La teoria più semplice, cioè con il numero minore di ipotesi, è più probabile che sia giusta». Ma che c’entra la probabilità?

È chiaro, sì? Il numero di oggetti pensabili è infinito. Alcuni esistono, altri non esistono. I secondi sono infiniti. Se anche entrambi fossero infiniti, i secondi sarebbero molto più «densi» (tecnicamente: la cardinalità del secondo insieme è superiore alla cardinalità del primo). Perciò, in assenza di prove a favore, la probabilità che un oggetto pensabile esista tende a zero.

Dietro questa giustificazione del principio c’è un’ipotesi fondante: non tutti gli oggetti pensabili esistono. Quindi il mio estremo tentativo di demolirla e riportare il rasoio di Occam al ruolo di assioma consiste, per provocazione, in un atto di fede universale: «Tutti gli oggetti pensabili esistono in qualche luogo dell’universo. Alcuni godono di esistenza propria. Altri non esistono finché non vengono pensati. Tuttavia, nell’istante stesso in cui viene concepito, ogni oggetto appare in qualche luogo dell’universo». Non c’è alcuna prova – ma ‘sticazzi: è un atto di fede –, ma neppure alcuna controprova, dunque pari e patta e il principio di parsimonia non si può applicare perché l’atto di fede universale nega la sua ipotesi fondante.

Ma Faber – l’ho detto – è un osso duro. E motiva l’ipotesi fondante.

Per ogni ente esistente se ne immagini uno coincidente nello spazio e identico tranne per un piccolo particolare e poi si estendano a piacere quei particolari. Per esempio, un Choam in tutto e per tutto uguale a me tranne un capello in più, poi un altro ma con due capelli in più e così via all’infinito. Questo è il caso proposto da Faber. Ispirato da un suo articolo esclusivo per Illuminismo 3.0 – a proposito: leggilo, ché merita –, esemplifico a mia volta: una lancia inarrestabile e uno scudo impenetrabile, nelle loro infinite immaginabili varianti di fattura. Sono tutte coppie di oggetti pensabili ma mutuamente esclusivi: se esiste uno, non può esistere l’altro. Ergo abbiamo infiniti oggetti pensabili ma non tutti esistenti. Ergo l’insieme degli oggetti pensabili non esistenti non è vuoto, ha infiniti elementi ed è più «denso» dell’insieme degli oggetti pensabili esistenti. Ergo il principio di parsimonia non è un semplice assunto ma ha una giustificazione razionale. E io devo capitolare: Faber ha ragione.

Conclusione: in uno stallo fra credente e non credente a entrambi tocca l’onere delle prova, ma il secondo può giocare la carta del principio di parsimonia, non più come espediente per liberarsi dell’onere della prova, bensì come prova. Più debole dell’esibizione dell’evidenza cogente, ma pur sempre una prova.

Che cos’è cambiato per me? Niente nella prassi: continuerò a utilizzare il principio di parsimonia come in passato. Ma molto nella teoria: ora agli apologeti bigotti che «Occam è solo un contestabile principio filosofico» potrò opporre una giustificazione razionale. Contestabile ‘sta minchia.

Sicché grazie, Faber.

Choam Goldberg


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4 pensieri su “Occam: perché funziona?

  1. Premetto che non sono erudito come voi e non ho certo la vostra capacità di disquisire su argomenti così complessi, ma credo lei avesse (purtroppo) ragione e Faber avesse torto. Appena possible le invierò una email per spiegare il mio pensiero da 2 cent.

  2. Il principio di parsimonia non è una prova, è un principio metodologico che serve a facilitare la ricerca: è come dire “si rende una prova un ramo il gruppo di controllo in una ricerca sperimentale” Certo aiuta a trovare le prove, ma non è una prova e non ho capito come lo si rende tale nel discorso di Faber.

    Al credente basta usare il “ci credo perché è assurdo” per invalidare tutto quello che gli lanciamo contro, “dio è incomprensibile per la logica umana” e tutte le altre fregnacce che sparano di continuo. La fede è un salto nel vuoto e il credente finisce per considerare delle prove da superare per entrare in paradiso tutte le evidenze che gli lanciamo contro…insomma il risultato sarà non riuscire a fare quello che si promette perdendo credibilità, invece dovremmo (a mio parere) metterci noi nella posizione di ragionevole dubbio e lasciare che loro dimostrino di non saper sostenere quello che dicono. L’idea di accollarci l’onere della prova mi sembra sì contro il principio di parsimonia.

    Per quanto mi guarda il ragionevole dubbio, così come basta a reputate innocente un imputato, basta a diche che la religione è una cazzata

  3. Un filosofo di cui non ricordo il nome disse che cercare di demolire le credenze dei bigotti è come cercare di disperdere un nugolo di mosche con un colpo di spada. Quando lo colpisci sembra che le mosche si disperdano mai dopo un po’ ritornano dov’erano prima cpme se nulla fosse.

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