La morte non è il Male. E un’altra teodicea non regge.
La community de L’Eterno Assente è formidabile: persone tutte diverse, ciascuna con la propria peculiarità. Per esempio, se di me i bigotti dicono che ho la fissa della teodicea, allora dovrebbero conoscere il mio gemello, rust: la sua passione è la caccia in rete ai documenti più strani, che poi sottopone agli altri come provocazione intellettuale. Con una predilezione per le teodicee, appunto. Sua è la scoperta degli articoli sul Male come assenza di Bene. Suo pure il rinvenimento della tesi di laurea con una panoramica sulle teodicee. Alcuni mesi fa rust ha scovato una nuova chicca, che ora finalmente vado ad analizzare.
Prima riprendo un caso di sofferenza innocente che ho citato in passato: Alice, sepolta sotto le macerie della sua casa, distrutta da un terremoto nonostante la struttura antisismica. Alice ha 3 anni e si ritrova con le gambe maciullate e alcune ossa rotte, ma nessun organo vitale danneggiato. La sua tremenda agonia dura molte ore, prima che la morte arrivi a liberarla. Un’agonia segnata, oltre che dal dolore, anche dalla solitudine e dalla paura: chi mai può consolare Alice, abbandonata sotto le rovine, nel buio, fra gli inquietanti scricchiolii dei muri sul punto di cedere ancora, lontana dai suoi genitori, dai suoi giocattoli, dalle sue sicurezze? Nella mente e nel corpo di quella bambina c’è l’inferno. Ed è un inferno senza colpa: Alice non può aver commesso alcun peccato per meritare una fine tanto atroce. Né alcuno è colpevole della sua sofferenza. La situazione di Alice è inventata, ma è realistica ed emblematica di infinite altre situazioni in cui un cucciolo umano è devastato da una sofferenza atroce. Non ti piace il terremoto? Considera un tumore terminale o una malformazione genetica: va bene lo stesso, purché sia atroce e duri nel tempo. Adesso però lasciamo Alice e veniamo alla teodicea scoperta da rust.
Questo tentativo di conciliare la sofferenza innocente con un Dio onnisciente, onnipotente e buono si trova in uno scritto di Andrés Torres Queiruga, professore di filosofia della religione all’Università di Salamanca. Autore di libri e direttore di riviste, Torres Queiruga ha un curriculum notevole. Non è uno degli apologeti di ‘stocazzo su YouTube e TikTok: rispetto ai quattro pisquani sfigati dello zoo dei bigotti, costui gioca in un altro campionato. Non essendo un cretino e/o un ignorante come le bestiole che conosciamo, va preso sul serio e i suoi argomenti vanno considerati con attenzione. In particolare, rust segnala «Dalla “ponerologia” alla teodicea: il male nella cultura secolare». Ti suggerisco di leggere tutto l’articolo: sono 14 pagine non leggerissime, però senza dubbio accessibili con un po’ di concentrazione. Io comunque ti propongo un rapido riassunto.
Torres Queiruga inizia ammettendo la permanente attualità del problema del Male e proponendo una panoramica storica delle soluzioni proposte, a partire dall’epoca del predominio culturale del cristianesimo, quando la religione era sottomessa alla fede e si poteva applicare la cosiddetta «via breve», cioè «Cada la logica, ma perduri la fede», per arrivare fino alla modernità, quando la ragione si affranca dalla fede, che non riesce più a reggere il dilemma che ormai è una dicotomia: o Dio o l’ateismo. Insomma la fede non basta più e il mistero non è più credibile.
Dopodiché Torres Queiruga affronta quella che chiama «via lunga», partendo da una constatazione: il mondo è autonomo, con leggi proprie, senza interferenze extramondane, e il Male è un fenomeno del mondo e nel mondo, con un carattere radicalmente umano. Per studiare il Male, l’autore propone una tripartizione delle discipline. In primo luogo la ponerologia, che tratta il Male in sé stesso. Poi la pisteodicea, per spiegare il Male in senso globale, con o senza la fede religiosa. Infine la teodicea, cioè un caso particolare di pisteodicea: quella cristiana. A questo punto Torres Queiruga arriva al nocciolo dell’argomento e si chiede: è immaginabile un mondo senza il Male? E risponde: no.
No, perché la radice ultima del Male sta nella finitudine del mondo. Un mondo finito e senza il Male non è neppure pensabile, proprio come un cerchio quadrato. Siccome il Male è un problema universale e tutti devono affrontarlo, farsene una ragione e inquadrarlo in una visione del mondo che lui chiama «fede» (pistis), allora tutti, compresi gli atei, hanno bisogno di una pisteodicea.
Quale sarà la pisteodicea cristiana, cioè la teodicea? Come si concilia un Dio onnisciente, onnipotente e buono con il Male? Torres Queiruga rievoca il dilemma già di Epicuro – «Dio può e non vuole oppure vuole e non può?» – e conclude che, poiché il Male è inevitabile in un mondo finito, il dilemma perde di senso: per quanto Dio sia onnipotente e buono, per quanto voglia e possa, non può comunque violare la logica e impedire il Male. Pertanto la nuova domanda da porsi è:
(…) perché, sapendo che il mondo sarebbe stato inevitabilmente esposto all’orrore del male, Dio lo ha creato nonostante tutto?
Già, perché?
Risposta: perché, nonostante tutto, il mondo è buono e può combattere il Male nell’attesa della vittoria escatologica finale. Dunque c’è una speranza, specifica della teodicea religiosa e nel cristianesimo simboleggiata dal destino di Gesù, che dapprima muore perché il Male è inevitabile ma infine risorge e sconfigge la morte.
Sembra tutto coerente, ma Torres Queiruga non è stupido e previene l’ovvia obiezione: non si era detto che il Male è insuperabile, che un mondo finito senza il Male è come un cerchio quadrato? Come si può adesso ammettere un suo superamento escatologico? Il cerchio quadrato diventa possibile dopo la morte? Per quale motivo allora non qui e subito?
E qua arriva la parolina magica della quale nessun teologo riesce a fare a meno: «mistero». La pisteodicea religiosa…
(…) deve poter addentrarsi nel mistero: non può rinunciare alla coerenza, ma neanche pretendere piena chiarezza.
Eccallà: il Mistero della fede. Sempre lui. Inossidabile. Immarcescibile. Adatto a ogni occasione e a ogni necessità, quando si va a sbattere contro qualche assurdità e non si sa che cosa rispondere.
Nondimeno Torres Queiruga propone alcuni argomenti secondo lui ragionevoli. Prima di tutto, siccome siamo immersi nel tempo, Dio non avrebbe potuto crearci liberi dal Male fin dal principio perché altrimenti non saremmo stati come siamo. A seguire c’è lo spirito umano, infinito nell’aspirazione della volontà e nell’ampiezza dell’intelligenza: una «finita infinità». Infine l’amore come comunione personale che trascende l’individualità e si configura come un’esperienza quasi mistica. Conclusione: Dio può e vuole vincere il Male, ma il suo amore deve tollerare la pazienza del tempo. Tuttavia, grazie alla fede, noi sappiamo che ci sarà una vittoria finale.
È tutto: la «via lunga» della pisteodicea cristiana è questa, secondo Andrés Torres Queiruga. Che cosa possiamo pensarne?
Anzitutto non è una delle solite fregnacce dei bigotti di mezza tacca, cattolici dilettanti prima ancora che apologeti dilettanti. Affronta il Male naturale e lascia in secondo piano quello morale, consapevole che il libero arbitrio spiega una parte, peraltro minore, di tutta la sofferenza. Non si attacca all’assurdità del peccato originale, che neanche viene citato. Satana? Non pervenuto. E anche il sacrificio di Cristo diventa solo una manifestazione esemplare della vittoria finale.
Sul finale Andrés Torres Queiruga si perde in una fuffa zoppicante, illogica e pullulante di supercazzole. Il Dio bisognoso del tempo evoca subito la teodicea ireneana del migliore dei mondi possibili. Introdotta in modo surrettizio, è ancora quella roba lì: il fine giustifica i mezzi, la sofferenza è strumentale. Poi, se la contraddizione della «finita infinità» è possibile nello spirito umano, perché allora non il cerchio quadrato di un mondo finito senza il Male? Da ultimo l’attesa della vittoria finale impone a Dio di essere schiavo del tempo quanto lo siamo noi: dove finisce la sua onnipotenza?
Eppure qui c’è un pensiero più sofisticato e sottile delle minchiate dei mentecatti che nei social giocano a fare gli apologeti. Ma regge?
No, nemmeno questa teodicea regge. Vediamo per quali ragioni.
Per cominciare, non c’è una esplicita definizione del Male. Sembra sottintendere che si tratti della morte e della sofferenza, però non viene detto con chiarezza. Perciò riprendo una definizione del Male che io stesso ho dato in un altro articolo e sulla quale penso che possiamo trovarci tutti d’accordo:
(…) è Male ogni forma di sofferenza non voluta di un essere dotato di un sistema nervoso sviluppato, ossia ogni condizione di dolore fisico o psicologico o di altro genere dalla quale un essere senziente rifugge se può.
Com’è ovvio,
(…) il Male e il Bene non esistono in Natura, il Male e il Bene sono soltanto giudizi soggettivi. La Natura, là fuori, se ne stracatafotte del Male e del Bene. I fenomeni naturali si verificano e basta, e un essere senziente che ne è toccato li considera Male o Bene a seconda delle loro conseguenze su di sé.
Per esempio, il Male per la gazzella è il Bene per il leone e viceversa. Torres Queiruga ha ragione quando scrive:
Tutto questo concorre ad un rinnovamento radicale. Perché fa vedere qualcosa sempre presente, ma ora innegabile: il carattere non immediatamente religioso, bensì semplicemente e radicalmente umano del male. Tutti nasciamo piangendo; alla fine ci aspetta la morte; e, nel frammezzo, c’è la colpa, la sofferenza, il male commesso o subìto, la catastrofe naturale o il crimine umano. È un problema comune, previo a ogni attribuzione religiosa o irreligiosa. Questa, qualunque essa sia, costituisce già una risposta strutturalmente posteriore all’interrogativo comune.
Sì, il Male è anzitutto un problema umano. Pure noi atei dobbiamo spiegarlo e giustificarlo, dice Torres Queiruga chiedendoci una pisteodicea per il semplice fatto di possedere anche noi una «fede» esistenziale.
(…) «fede» pessimistica come in A. Schopenhauer o superumana come in F. Nietzsche, disperata come in J.-P. Sartre o eroica come in A. Camus…
Davvero? Davvero noi atei dobbiamo spiegare e giustificare il Male? Non è in fondo la stessa domanda degli apologeti da strapazzo, ovvero: qual è la teodicea degli atei? In realtà l’ateo non deve né spiegare né giustificare un cazzo di niente. L’ateo si limita a constatare l’universalità dell’esperienza del dolore e della morte, condivisa da ogni essere senziente. Non è una teodicea. Infatti una teodicea sottintende un theos. Questa concezione del Male può essere considerata, usando la terminologia di Torres Queiruga, una pisteodicea atea, benché così facendo si stiracchi il concetto di «fede» un po’ troppo per i miei gusti. Diciamo piuttosto che, nella Weltanschauung atea, il Male è un dato ontologico: c’è e basta.
Resta aperto il nucleo centrale dell’argomento di Torres Queiruga: il Male come conseguenza inevitabile della finitudine del mondo. Dio avrebbe potuto non creare il mondo ma, poiché ha deciso di crearlo e il mondo dev’essere finito, allora il Male è inevitabile.
Dio vuole il mondo per se stesso e lo vuole nonostante la finitezza e ciò che essa comporta, perché la finitudine non è un «mezzo per», bensì la cosa stessa in concreto, è il suo unico modo possibile di essere. Il male è l’assolutamente non voluto, ma inevitabile; per questo Dio vuole il mondo nonostante il male, e lo vuole così unicamente perché non esiste altra possibilità perché esso esista.
Questo è un Dio capriccioso che, siccome vuole il mondo, lo crea a dispetto della sofferenza inevitabile. «Un Dio infantile che batte i piedi e dice che vuole giocare lo stesso a bruciare le formiche», ha scritto Elena nella community de L’Eterno Assente.
Inoltre l’argomento regge se il Male e la finitudine sono equivalenti. Però di fatto non lo sono: il Male è molto di più. Soprattutto: la morte non è il Male. Ecco, io l’ho detto e tu hai capito bene: la morte non è il Male.
Spesso gli atei, quando parlano della teodicea e descrivono il Male, danno per scontato che esso si manifesti nella morte e nella sofferenza. Per esempio quando chiedono: «Perché i bambini muoiono?». Ma pensaci bene: la morte non è il Male. Niente affatto. Non per chi muore, quanto meno. Rimane sempre valida la riflessione di Epicuro: quando ci sono io non c’è la morte, quando c’è la morte non ci sono più io. Che Male può mai essere, se non esiste qualcuno per sperimentarlo? La morte, se è un Male, è tale per chi rimane e soffre per la perdita di chi è morto.
Soffre, appunto. Infatti solo la sofferenza è il Male. Invece la finitudine connaturata al mondo e descritta da Torres Queiruga è soltanto la morte.
In Natura il dolore ha una spiegazione evolutiva: la sofferenza ci segnala un danno o un pericolo e ci aiuta a sopravvivere. Esiste una patologia chiamata insensibilità congenita al dolore con anidrosi. Sono note poche centinaia di casi su 8 miliardi. Ed è terribile: chi ne è afflitto fin dalla nascita non ha alcun segnale di allarme per una ferita, un’ustione o un’infezione e rischia costantemente la vita. Perciò grazie, Signore, anche per il dolore! Ma…
…ma quanto dolore è inutile? Il dolore dei malati terminali, per dire. O il dolore delle ferite letali. Quel dolore non serve a niente. Dio avrebbe potuto creare un mondo finito, quindi mortale, ma privo di dolore inutile. Un mondo nel quale gli esseri senzienti si spengono di colpo, senza alcuna sofferenza. Sarebbe stato un mondo imperfetto, però senza dubbio migliore di questo. In un mondo siffatto Alice sarebbe passata dalla vita terrena al paradiso – nell’ipotesi che Dio esista, Alice di sicuro va in paradiso – senza sentire nulla. Invece no. Invece Dio permette che Alice soffra per ore immersa in una tortura gratuita, insensata e senza alcuno scopo concepibile.
Già, Alice. L’avevamo lasciata in agonia sotto le macerie. Povera, disperata Alice. Ed è con Alice e con gli infiniti dolori individuali e reali che tutte le teodicee devono confrontarsi. A me, quando leggo questi lambiccamenti per conciliare un Dio onnisciente, onnipotente e buono con la sofferenza innocente, resta sempre un’impressione di elucubrazioni astratte e remote, lontane dalla realtà concreta del dolore dei singoli esseri senzienti. Come ha rilevato Frank nella community de L’Eterno Assente, queste pippe mentali servono soprattutto ai preti per le loro cazzate nelle omelie ai funerali. Magari al funerale proprio di Alice, quando, per giustificare la morte di una bambina e per consolare i parenti sopravvissuti, il sacerdote racconta di una vita migliore al cospetto di Dio, nell’attesa di ritrovarsi insieme nella beatitudine eterna, però trascura – ops! – le lunghe e insensate ore di strazio nel dolore e nel terrore.
Ok, secondo Torres Queiruga Dio doveva creare un mondo con il Male perché è un mondo finito. Eppure Dio lo vuole perché…
(…) perché ne vale la pena: anche se in misura limitata e includendo mali, il mondo è buono.
Ma Alice? Come la mettiamo con Alice? Come può essere buono un mondo nel quale Alice si ritrova schiacciata dalle macerie, viva e sommersa dal dolore e dalla paura? Dio potrebbe eliminare la sua sofferenza. Potrebbe farla morire sul colpo nel crollo della casa e portarla subito in paradiso. Invece la lascia immersa in un dolore lancinante e in un terrore devastante. Non può o non vuole? È impotente o è stronzo?
Sicché va bene, diamola buona a Torres Queiruga: in un mondo finito la morte è inevitabile. Ma la sofferenza? Come la giustifica? La sua teodicea vada a raccontarla ad Alice e provi a convincerla che Dio c’è, è onnipotente, è buono e soprattutto la ama.
Oppure, per restare a una condizione assai meno drammatica, Torres Queiruga provi a consolare sé stesso con queste pippe mentali sulla finitudine del mondo quando avrà un banale mal di denti e non ci saranno nessun analgesico e nessun dentista a portata di mano. Poi semmai ne riparliamo.
I cannot persuade myself that a beneficent and omnipotent God would have designedly created the Ichneumonidae [parasitic wasp] with the express intention of their feeding within the living bodies of Caterpillars.
– Charles Darwin
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Grazie a te per l’attenzione e l’interesse e l’apprezzamento.