Eredità cattoliche. Ci sono persone che ci hanno costruito la sofferenza di una vita.
La religione fa danni: se non ne fossimo convinti non saremmo qui a scrivere e a leggere questo blog. E i danni sono spesso meno evidenti ma più profondi di quanto possiamo immaginare, come ci racconta Susanna Labirinto, teologa atea.
1. Senso di colpa e senso del peccato
I catechisti e i teologi usano questo accostamento per dirti che il senso del peccato va oltre la tua colpa e ti permette di riconciliarti con te stesso/a grazie al fatto che Dio ti ama. Se accetti che la tua non è solo una colpa «umana» ma che la vera ferita l’hai inferta al tuo rapporto col Padre, gioisci! La novità è che Lui ti ama comunque, ti perdona e grazie a questo perdono sei libero/a.
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Non mi viene altro: cazzo, che violenza.
E questa è la versione moderna. Figuriamoci quella vecchia del mio parroco che quand’ero bambina mi diceva di girarmi, dopo la confessione, perché se avevo omesso dei peccati avrei visto il diavolo che veniva a prendermi. Meno male che è morto prima che io mi ponessi tutte le domande del tipo «…e se mi dimentico qualcosa?» oppure «…viene a prendermi significa che muoio o fa solo la mossa di prendermi, poi io mi giro e confesso anche il resto e tutto si sistema?».
No, ci ho ripensato: la versione «moderna» del peccato fa ancora più paura. Si comincia a parlare questo linguaggio – quasi «va di moda» – a metà degli Anni Settanta, dopo il Concilio, ma i preti che propongono questa versione sono pochi illuminati, gli altri continuano a rimproverare i bambini, con un bel senso di colpa da «Sei stato cattivo». Nei decenni successivi prende piede. È un bene?
Mi fa paura l’idea di milioni di bambini e adolescenti che crescono con l’idea subdola di essere sbagliati e perciò di aver bisogno di redenzione. Quasi quasi è più facile sdrammatizzare il vecchio prete che ti sussurrava: «Hai commesso atti impuri?». Perfino ridicolo, alla fine della fiera. Invece questa cosa che il perdono ti salva… e quanto è buono questo Dio, nonostante io non lo meriti…
Meritare di essere felici sembra la cosa più difficile per un’intera generazione. Ci hanno marchiato: appena gioisco di qualcosa, mi devo rovinare quella gioia. Conoscete la sensazione? E mica solo io: me l’hanno raccontata in tanti e tante. Forse ancora di più se sei femmina. Peccaminosa per statuto, puoi goderti qualcosa? Certo che no.
2. Pensieri cattivi
Non so voi, ma a me questa cosa sbroccare di brutto. Mi offende. Offende la mia intelligenza, la mia sensibilità, il mio senso dell’umano e dell’etica. Come può essere sbagliata una cosa che accade nonostante te? Se non c’è scelta, come può esserci cattiveria?
Eppure conosco persone che ci hanno costruito la sofferenza di una vita.
«Ho pensato che accadesse qualcosa di brutto a qualcuno. Ho pensato di andare via. Ho pensato di essere capace di fare una cosa proibita. Ho pensato che qualcuno fosse idiota. Ho pensato di rubare. Ho pensato che qualcuno morisse. Ho pensato di uccidere. O di prendere tutti a botte con una mazza. Ho pensato che il mondo va a fuoco. Ho pensato che non è sbagliato quello che tutti dicono che è sbagliato. Ho pensato che ho ragione io.»
Nel caso di cose pensate e poi accadute, come per esempio la morte di qualcuno, si scatena un delirio di onnipotenza che qualcuno deve assolutamente interrompere, altrimenti oltre alla colpa si finisce col nutrire anche il delirio, e l’ansia da controllo ti si mangia.
Nel caso di cose pensate e mai realizzate, perché sentirsi cattivi se non si è fatto niente di male? Un sentimento di rabbia o di invidia, così come una fantasia cattiva, non sono qualcosa che decidiamo, e quindi non hanno nulla a che fare con l’etica.
Accettare che ci siano pensieri «sbagliati» comporta la presunzione di sapere che ci sono pensieri «giusti» che ci fanno star bene. E che le azioni che seguono i nostri pensieri ne sono una diretta conseguenza. Non smetto di pensare che è un cumulo di stronzate.
Come si può confondere in maniera così patetica l’etica con la psicologia?
«Mi-viene-da-pensare-di-fare» e «faccio» sono cose ben distanti. Ammesso che «faccio» e «decido-consapevolmente-di-fare» possano essere la stessa cosa. Siamo davvero sicuri che ciascun individuo in ogni singolo atto fa quello che vuole? O quello che deve? È ormai mia definitiva convinzione che ognuno fa quello che può: dentro la propria storia, in quel momento e in quelle circostanze.
E pensa quello che gli viene da pensare.
3. Perdonare, perdonarsi
Si perdona quando si smette qualsiasi desiderio di rivalsa su qualcuno che ci ha fatto stare male. Quindi, in qualche modo, il perdono ha a che fare con la possibilità di smettere di soffrire a causa di un evento causato da qualcuno (suo malgrado oppure per sua stessa volontà, in buona o in pessima fede, consapevolmente o senza nemmeno essersene accorto…). L’altro è importante fino a un certo punto: è l’evento accaduto che ci ha provocato dolore o rabbia. E possiamo perdonare in quanto possiamo superare o metabolizzare quell’evento.
Cosa accade se a provocare un evento doloroso siamo stati noi stessi? O se qualcuno ci ha fatto del male con una qualche forma di nostra complicità? Dobbiamo perdonare anche noi stessi.
Se qualcuno ci fa del male abbiamo la possibilità di mettere una distanza tra il fatto che ci provoca dolore e la persona che ne è la causa. Possiamo ad esempio pensare che non lo ha fatto di proposito. Oppure che nella sua mente non ci sarebbe stata alcuna conseguenza per noi. Oppure che nel suo sistema di valori – spesso condizionato da un’appartenenza generazionale o culturale – poteva sembrare una cosa buona. Oppure che quella persona è malata o incapace. Non funziona sempre, ma qualche volta sì.
Se dobbiamo perdonare noi stessi, purtroppo quella distanza è più difficile da raggiungere. Nonostante certa educazione cristiana (non solo cattolica) ci abbia raccontato la gran balla che non ammettiamo mai di aver sbagliato e noi esseri umani siamo giudici clementi di noi stessi, l’esperienza mia e di tantissimi altri è che siamo cattivissimi, con noi. E quella stessa educazione (soprattutto cattolica) ci impone di sentirci in colpa. Vagonate di sensi di colpa. Quintali di merda autoscaricata con cui ci imponiamo di farci schifo.
Quando sentiamo di aver provocato una cosa che si è rivelata essere male per noi – che sia stato un desiderio, un pensiero, un non sapersi difendere o qualsiasi altra cosa – perdonarci comporterebbe staccare quella persona che eravamo in quel momento dalla persona che siamo.
Provo tanta pena e tenerezza per questa fatica.
Susanna Labirinto
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