Una barzelletta scema può suggerire la risposta a un problema teologico. Ma la risposta è sbagliata.
C’era una volta un tizio che ogni mattina aveva l’abitudine di prendersi a martellate i testicoli. «Ma che cosa fai?», gli chiesero stupiti gli amici. «Mi faccio una sega cinese», rispose lui. «E non fa male?», obiettarono loro. «Certo che fa male!», replicò il tizio. «Ma allora perché lo fai?», insistettero gli amici. «Perché quando smetto godo moltissimo», concluse il segaiolo cinese.
Questa barzelletta a malapena strappa un sorriso, ma descrive un’esperienza conosciuta da tutti: una condizione di fastidio o perfino di dolore che, quando si conclude, provoca un intenso godimento. Un esempio banale: hai la vescica o l’intestino pieno, ti svuoti e… immenso sollievo! Oppure stai aspettando l’esito di un esame medico che potrebbe essere questione di vita o di morte, il responso arriva e… niente, non hai niente: quanto godi, eh? Sono tutte meravigliose seghe cinesi. E sulle seghe cinesi si può costruire anche una teodicea.
Il problema della teodicea, cioè della giustizia divina, è ben noto e io ne ho già scritto parecchio. In sintesi: come può il Dio delle tradizioni abramitiche, ovvero una divinità onnisciente, onnipotente e buona, permettere il Male, ossia la sofferenza di un innocente provocata da una causa naturale? Per esempio, come può quel Dio lasciar agonizzare un bambino per ore prima di farlo morire per un tumore alle ossa? Difatti non può: proprio la sofferenza innocente è l’atto di accusa più potente contro il Dio delle tradizioni abramitiche, la prova definitiva della sua impossibilità. Dal peccato originale fino al sacrificio di Cristo, tutti i tentativi di trovare una teodicea razionale del dolore innocente falliscono e, analizzati con razionalità e senza la palla al piede della fede, si rivelano delle cazzate sesquipedali. Tant’è che proprio la teodicea è la sfida che qualsiasi credente deve accettare se vuole discutere di religione con me.
C’è però l’argomento della sega cinese, che pure talvolta mi sono sentito proporre. Per capirlo, partiamo da una riflessione del filosofo stoico Crisippo di Soli, vissuto nel III secolo a.C.:
Nessuno è più inetto di chi suppone che il bene possa essere esistito senza il male. Il bene ed il male, essendo antitetici, hanno bisogno entrambi che sussista il loro opposto.
– Crisippo (citato da Bertrand Russell)
In sostanza, il Male esiste affinché possa esistere il Bene, e noi possiamo godere del Bene solo perché prima abbiamo sofferto del Male. La sega cinese, appunto. In un’ottica religiosa abramitica, potremmo affermare che il dolore sofferto prima rende ancora più gradevole la pace e il benessere che seguono dopo.
Ma se il Bene non segue affatto il Male? Io posso anche martellarmi i coglioni per godere dell’immane sollazzo quando smetto, ma nessun Bene ci sarà mai per il bambino straziato dal cancro fino al suo ultimo respiro. O sì?
«Sì, invece», è la risposta del credente. «Il bambino godrà del supremo Bene di poter contemplare il volto di Dio, che lo compenserà del grande Male subìto». Ora, io nemmeno riesco a concepire un benessere così immenso da controbilanciare la tortura indicibile della lenta agonia per un tumore osseo. «Ma tu sei un essere finito e limitato», replica il credente, «e neanche puoi immaginare l’infinita felicità del paradiso».
Sarà. Resta però senza risposta un paio di domande che demoliscono anche la teodicea della sega cinese. Anzitutto, perché quel bambino, per poter godere dell’infinita felicità del paradiso, deve attraversare l’immenso tormento del dolore fisico, mentre altri muoiono sereni e senza dolore e pure finiscono in paradiso? E poi Dio, nella sua infinita onnipotenza, non poteva creare un universo non dicotomico, ovvero un universo nel quale esistesse solo il Bene, senza alcun Male?
E no, come sempre il Mistero della fede non è una soluzione accettabile.
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Un unico appunto, se si volesse fare un paragone fra bene/male e seghe, allora il bene è la sega convenzionale (non l’assenza di sega cinese) e il male è la sega cinese.
Sicché per poter godere ci vogliono momenti dove non si gode, non importa se si soffre o no, importa che non si goda.
È un’ovvietà: è impossibile stare in una condizione di orgasmo tutta la vita, si finirebbe per soffrirne. Viceversa il dolore è potenzialmente senza limiti, la retorica della passione di Cristo non è che un umano tentativo di dare un senso alla sofferenza.