Massimo Pigliucci è conosciuto in Italia soprattutto come autore di un saggio di successo sulla pratica dello stoicismo nella vita quotidiana. Però è molto di più: un biologo, un filosofo della scienza, un ateo, un divulgatore, un attivista… Ma come fa?
L’intellettuale rinascimentale era completo: matematico, scienziato, filosofo, artista e anche politico. Oggi sarebbe impossibile: lo scibile umano è troppo vasto per entrare tutto in un’unica mente. In compenso siamo finiti all’estremo opposto: la iperspecializzazione. Spesso con l’aggravante dell’incomprensione se non addirittura dell’ostilità verso tutto quello che sta fuori dall’orticello. «Le Due Culture» di Charles Snow uscì nel 1959: quasi 60 anni e non sentirli, ché poco o nulla sembra cambiato. Il filosofo idealista ritiene, seguendo l’eredità di Heidegger, che «la Scienza non pensa», e la scienziata positivista che la filosofia è fuffa, inutile per capire davvero il mondo. Be’, Massimo Pigliucci non è così.
Biologo italiano trapiantato negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘90 come genetista e poi assorbito dalla filosofia, dal 2013 Pigliucci insegna al City College della City University di New York. Si occupa di teoria dell’evoluzione, di filosofia della scienza, di relazione fra la scienza e la religione. Da tempo è uno fra gli intellettuali di spicco del mondo anglosassone, attivista dello scetticismo, dell’aderenza all’evidenza scientifica, dell’educazione al pensiero critico e razionale, della lotta alla pseudoscienza. Pigliucci tiene i blog How to Be a Stoic e Footnotes to Plato e il podcast Rationally Speaking: sempre con una prosa piana, comprensibile, chiara, nel migliore stile divulgativo anglosassone. Se non avevi mai sentito il suo nome circolare in Italia è perché «nemo propheta in patria»: lui là, a parlare di razionalità e di filosofia della scienza, e noi qua, a sorbirci il profondo e incomprensibile pensiero di Emanuele Severino. Son soddisfazioni.
Poi, alcuni anni fa, la conversione. Certo non alla fede religiosa: Pigliucci è sempre ateo. Alla filosofia stoica, invece. Nuovo interesse, nuova attività pubblica con libri, articoli, conferenze. Ed ecco: nel 2017 arriva la notorietà pure in Italia, con il successo di «Come essere stoici». E tutti a stupirsi: «Oh, ma guarda quant’è bravo ‘sto filosofo americano. Sarà mica di origine italiana?». Ah ah.
Noi abbiamo chiesto a Massimo Pigliucci di parlarci di ateismo, di religione, di scienza, di filosofia. E anche di stoicismo, com’è ovvio.
Massimo, tu ti definisci ateo o agnostico?
Ateo, ma è necessaria una precisazione. Spesso si pensa che l’ateo sia chi è sicuro che Dio non esista. Io invece intendo l’aggettivo in senso letterale: a-teo è chi non ha una credenza positiva nell’esistenza di Dio. Io sono ateo perché non credo ci sia una ragione sufficiente per pensare che Dio esista. A differenza dell’agnostico, di solito presentato come chi non ha alcun motivo per sbilanciarsi. E per me i motivi per sbilanciarsi ci sono.
Perciò sulla scala di Dawkins…
…direi che posso attribuirmi un valore 6 su 7.
Hai ricevuto un’educazione religiosa?
Sono cresciuto a Roma, in un ambiente cattolico, sebbene i miei non fossero molto religiosi. Mia madre, per esempio, andava a messa solo a Natale e a Pasqua. Alle Elementari ho frequentato il catechismo e ho fatto la prima comunione. Poi, a partire dalla fine delle Medie e dall’inizio delle Superiori, non ho più creduto molto.
La tua deconversione è stata graduale oppure improvvisa?
Alcune ricerche sociologiche mostrano come di solito le conversioni religiose siano improvvise: chi trova o ritrova la fede lo fa a seguito di un’esperienza particolare, spesso un evento traumatico. Al contrario, le deconversioni avvengono in modo progressivo, ed è stato così anche per me. Per quanto ricordo, già alle Medie, quando cominciai a pensare in modo autonomo, mi vennero dei seri dubbi. Iniziai a leggere libri di filosofia e fra i primi ci fu l’autobiografia di Bertrand Russell. Lui racconta un episodio in cui, verso la fine della Prima guerra mondiale, quando fu arrestato per essersi opposto alla partecipazione del Regno Unito, la guardia all’ingresso della prigione gli chiese quale fosse la sua religione e lui si definì agnostico. Allora il secondino bofonchiò qualcosa come «tanto poi alla fine credono tutti nello stesso Dio». Questo episodio mi incuriosì parecchio, quindi lessi «Perché non sono cristiano» e per la prima volta mi confrontai con gli argomenti più seri contro l’esistenza di Dio. Da quel momento, fra i 15 e i 16 anni, presi a considerarmi ateo.
Come vivevi quell’ateismo adolescenziale?
Per diversi anni non ho avuto una religione ma neppure un’alternativa filosofica. Mi barcamenavo senza una bussola. Però, quando mi iscrissi a biologia all’università, mi imbattei nell’umanismo secolare. Iniziai a leggere libri e articoli, in particolare quelli di Paul Kurtz, una figura centrale nella storia del movimento umanista e dello scetticismo. Kurtz è morto nel 2012 ed è stato uno dei fondatori dello CSICOP e delle riviste «Skeptical Inquirer» e «Free Inquiry». Negli anni successivi avrei avuto la fortuna di conoscerlo e di collaborare con lui su alcuni progetti, scrivendo per entrambe le riviste. Ebbene, alcune opere di Kurtz e altre persone associate al movimento scettico mi fornirono un’alternativa alla religione e mi permisero di costruirmi una filosofia di vita compatibile con le conoscenze scientifiche. Ma pure una filosofia con un’etica.
Hai mai manifestato in maniera esplicita il tuo ateismo?
In principio non molto. Dovetti dirlo a mia madre, perché voleva farmi fare la cresima e io le risposi che non credevo più. Non ne fu contenta, sebbene non fosse molto religiosa. Per parecchi anni il mio ateismo è stato conosciuto solo in famiglia e fra pochi amici intimi, se l’argomento saltava fuori. Del resto in Italia non era oggetto di discussione.
E una volta lasciata l’Italia?
All’inizio degli anni ‘90 mi trasferii prima all’Università del Connecticut e in seguito alla Brown University, nel Rhode Island. Lì mi trovai in un ambiente congeniale: sulla costa est degli Stati Uniti la religiosità non è molto diffusa. La situazione cambiò quando, per il mio primo incarico accademico, arrivai nel Tennessee: proprio in mezzo alla Bible Belt. Leggendo i giornali e parlando con gli studenti, mi resi subito conto di quanto fossero diffusi il creazionismo e il fondamentalismo religioso. Per esempio, quando comprai casa a Knoxville, i miei vicini bussarono per presentarsi e per conoscermi. Mi chiesero quale fosse la mia professione e io capii che, se avessi detto di insegnare biologia evoluzionistica, avrei avuto qualche problema. Me la cavai presentandomi solo come professore all’università. Poi però mi domandarono in quale chiesa andassi. Non potevo rispondere solo: «Non ci vado». Replicai che ero stato cresciuto come cattolico. Non era una menzogna, ma non significava che lo fossi ancora in quel momento. (Ride.) Si dissero dispiaciuti, poiché il Papa sarebbe finito all’inferno. «All’inferno?», risposi. «Solo questo Papa oppure tutti i Papi?». «Tutti i Papi», mi risposero, «perché i cattolici non sono veri cristiani». Ci salutammo e da allora non li vidi più.
Risale a quel periodo l’inizio della tua attività pubblica?
Nel 1996 in Tennessee si discuteva un progetto di legge per l’insegnamento del creazionismo nelle Scuole superiori. Per oppormi, io scrissi ai giornali e ai politici. Le televisioni locali mi cercarono e la mia posizione diventò pubblica e ufficiale: ero l’ateo che difendeva la teoria dell’evoluzione.
Poi ci fu il Darwin Day.
Proprio così. Nel 1997 lanciai il Darwin Day con alcuni studenti e colleghi dell’Università del Tennessee. L’idea nacque durante una chiacchierata in birreria con i miei dottorandi: perché non proporre conferenze per il pubblico e lezioni nelle scuole, per far conoscere la scienza dell’evoluzione e per discutere la natura della scienza? Uno dei primi ospiti fu Richard Dawkins, che tenne una relazione piuttosto divertente. A quel punto fui avvicinato da un gruppo locale di scettici, che mi proposero di partecipare ad altre attività per la diffusione delle conoscenze scientifiche e del pensiero critico.
Ma ti occupavi anche di ateismo?
Sì, fu una conseguenza quasi immediata del Darwin Day. Mi contattò un’organizzazione studentesca, Campus Crusade for Christ, e mi invitò a un dibattito con un teologo. «Perché no?», mi dissi. Così per diversi anni nel Tennessee partecipai a discussioni pubbliche sull’esistenza di Dio con teologi e con biologi creazionisti.
Ti sei mai sentito discriminato per il tuo ateismo, sul piano personale o professionale?
Sul piano professionale no di sicuro. La maggioranza dei miei colleghi era composta o da atei o da agnostici o da indifferenti. Invece i vicini smisero di salutarmi. Ricevevo pure telefonate nelle quali mi si invitava ad andare in chiesa. Nemmeno ai dibattiti di fronte a centinaia di persone ho incontrato reazioni negative. Tranne in un’occasione, quando un tizio mi disse: «Io non ti uccido solo perché credo in Dio». «Be’», gli risposi, «allora spero che tu continui a crederci». (Ride.) Ma quello fu l’unico episodio sgradevole, a fronte di dozzine di dibattiti pubblici e centinaia di articoli sull’ateismo.
La tua ricerca e il tuo lavoro hanno determinato o rafforzato il tuo ateismo?
Non lo hanno determinato: quando iniziai l’università ero già ateo. Però lo hanno confermato da un punto di vista sia scientifico sia filosofico. Quando leggi Darwin e impari le nozioni elementari sulla diversità del mondo biologico, capisci subito che non c’è alcuno spazio per il creazionismo o l’Intelligent design. Pertanto lo studio della biologia ha rafforzato la mia posizione filosofica, che arrivava dalla lettura di Russell ed era un po’ superficiale e non molto sofisticata. Quando sono passato dalla biologia alla filosofia e mi sono iscritto al PhD in Tennessee e alla fine ho cambiato carriera accademica, ho affrontato alcuni filosofi che mi hanno fornito ulteriori argomenti. Per esempio David Hume, un illuminista scettico scozzese del XVIII secolo. Hume non si definiva in modo esplicito ateo o agnostico, ma la sua etica e metafisica trasuda scetticismo verso la religione. È uno dei miei filosofi preferiti e di tanto in tanto lo rileggo. Mi sono perfino fatto tatuare una sua citazione sul braccio destro. Inoltre la necessità di documentarmi per affrontare i dibattiti con i teologi mi ha costretto a leggere le loro opere. Per finire, pur senza avere una preparazione professionale conosco la teologia molto meglio di molti credenti.
Questa è un’esperienza comune a tanti atei: ne sappiamo di religione molto più della maggior parte di chi si professa credente.
È abbastanza naturale: siccome ti trovi in minoranza, ti sorge la curiosità di capire che cosa crede la maggioranza e perché ci crede.
Come giustifichi oggi il tuo ateismo? Se dovessi spiegare a qualcuno per quale motivo non credi in Dio, quale argomento gli proporresti? Uno e uno solo: il più convincente.
È semplice: il rasoio di Occam. Non ho bisogno dell’esistenza di Dio per spiegare la realtà che osservo.
Come rispose Laplace a Napoleone, quando gli chiese dove fosse Dio nella sua «Exposition du système du monde»: «Citoyen Premier Consul, je n’ai pas eu besoin de cette hypothèse».
Esatto.
Per te l’esistenza di Dio è argomento di discussione con altre persone?
Di rado. Vivo a New York da diversi anni e la maggior parte delle persone che frequento non è religiosa oppure mi conosce e sa come la penso. Compresi i miei studenti, ai quali dico subito, fin dalla prima lezione, che se vogliono conoscere le mie idee possono leggere gli articoli nei miei blog. D’altronde il mio dovere non è dir loro che cosa pensare, ma insegnare loro come pensare per conto proprio. Comunque non saprei dire se i miei colleghi e i miei studenti siano in maggioranza atei o agnostici o indifferenti o religiosi. Qui a New York, a differenza del Tennessee, l’esistenza di Dio non salta fuori come argomento di discussione.
La società sarebbe migliore se il numero di non credenti fosse maggiore?
È una domanda difficile. Gli atei come Dawkins ti risponderebbero di sì, ma io non ne sono affatto sicuro. Io penso che la società sarebbe migliore se ci fossero meno persone che credono in modo rigido in un’ideologia. Qualsiasi ideologia: religiosa ma anche politica. Anche l’ideologia atea. La società sarebbe migliore se ci fossero più persone disposte a porsi domande e a essere flessibili. E io conosco tanti credenti più flessibili di molti atei.
È utile demolire la fede altrui, oppure ciascuno è libero di credere quel che vuole?
Più che inutile, mi sembra impossibile. Se qualcuno perde la fede, di solito non lo fa perché un ateo lo deconverte. Io sono amico di molti ex credenti, anche fondamentalisti, e quando chiedo loro come hanno smesso di credere la risposta non è mai: «Ho letto i libri di Richard Dawkins e di Sam Harris». Piuttosto è: «Sono andato all’università e lì ho conosciuto gente che la pensava in modo un po’ diverso dal mio, mi sono venuti dei dubbi, ho letto, ho pensato e pian piano mi sono trovato dall’altra parte». Insomma, come ho detto, la deconversione avviene su periodi lunghi, perché si viene esposti a nuove conoscenze da fonti differenti. Non funziona l’idea di andare da una persona religiosa e dimostrarle la falsità delle sue credenze. In ogni caso io non lo ritengo un mio dovere di cittadino e di intellettuale. Mi limito solo a esporre la mia posizione, a parlare delle cose che conosco e a spiegare e argomentare il mio pensiero.
Puoi escludere la possibilità di iniziare a credere in Dio?
Bella domanda. Siccome mi attribuisco il valore 6 sulla scala di Dawkins, non posso escluderlo. Però lo considero davvero molto improbabile. La statistica bayesiana consente di stimare la probabilità di un’ipotesi sulla base della cifra che si sarebbe disposti a scommettere su quell’ipotesi, per vedere come cambia all’apparire di nuove informazioni. Allora potrei riformulare la domanda chiedendomi quanto sarei disposto a scommettere in denaro contro la mia deconversione.
E…?
…e scommetterei milioni. Però non miliardi. (Ride.)
Che genere di prova considereresti convincente per accettare l’esistenza di Dio?
Io stesso me lo sono chiesto diverse volte. Molte prove sono pensabili in linea teorica, ma di fatto sono inverosimili a priori. Per esempio, se si dovesse scoprire una sorta di «firma di Dio» nel DNA, potrei prenderla in considerazione. Il mio collega biologo Jerry Coyne, con il quale peraltro sono in disaccordo su alcune questioni, ha immaginato di uscire una sera e vedere le stelle in cielo riorganizzarsi per formare la scritta «Buonasera, Jerry». Se capitasse a me di vedere le stelle comporre «Buonasera, Massimo», anzitutto mi rivolgerei a uno psichiatra. Se però fosse un’esperienza condivisa…
Siamo di fronte a un rinascimento religioso?
No, non penso. Non nel mondo occidentale, almeno. Anzi, qui il numero delle persone non religiose è in aumento. Siamo però, più in generale, di fronte a un aumento delle ideologie radicali, religiose ma pure politiche.
Sei preoccupato?
Sì, sono preoccupato. Tutti noi siamo cresciuti con l’idea che la democrazia sia il sistema di governo migliore. Come disse Churchill, «la democrazia è il sistema peggiore, fatta eccezione per tutti gli altri». Così abbiamo creduto che, con il trascorrere del tempo, la democrazia e la società liberale si sarebbero estese nel mondo. Purtroppo però le cose non stanno andando in questo modo.
Ma la democrazia fondata sul suffragio universale è un sistema efficiente? Non rischia di portare a degenerazioni mostruose? Anche Hitler il 19 agosto 1934 venne accettato come Führer con una votazione democratica che fu quasi un plebiscito.
Già Platone aveva mostrato tutti i limiti della democrazia, specie nella sua versione diretta, nella quale la gente vota e alla fine Socrate viene messo a morte. Oggi noi implementeremmo il sistema con i social media. In realtà tutti i Paesi moderni cosiddetti democratici non sono democrazie in quel senso, per fortuna, bensì repubbliche basate su una Costituzione per salvaguardare i diritti fondamentali. Però le Costituzioni possono essere modificate. O perfino ignorate, se un numero sufficiente di persone decide di ignorarle.
Uno dei presupposti della democrazia è che chi vota sia informato e fornito di spirito critico. E lo spirito critico può essere insegnato e diffuso. Quest’azione nelle nostre società è utile e sufficiente?
È utile ma non è sufficiente. Alcune ricerche dimostrano come gli studenti esposti a corsi di critical thinking migliorino le proprie capacità di giudizio. Purtroppo lo si fa troppo poco e troppo tardi. Bisognerebbe cominciare a insegnare la filosofia già alle Medie. Invece il trend è l’opposto: verso la sua cancellazione anche alle Superiori. Negli Stati Uniti non è mai stata una materia obbligatoria. In molti altri Paesi lo era, ma in forma limitata, e adesso, imitando gli americani nei loro aspetti peggiori, si tende a eliminarla. Più in generale l’educazione pubblica è sotto attacco quasi ovunque. Qui negli Stati Uniti, per esempio, i finanziamenti per le scuole pubbliche, comprese le università, sono calati a picco negli ultimi 20 anni. I risultati si vedono: viviamo in un’epoca nella quale dominano la post truth, gli alternative fact e le fake news.
Bisognerebbe insegnare più filosofia e più scienza.
Soprattutto più filosofia. Proprio la filosofia e più in generale le discipline umanistiche, ancor più che la scienza, educano al pensiero critico.
Tuttavia molti scienziati sono scettici sulla reale utilità della filosofia. Penso per esempio a Neil deGrasse Tyson o Bill Nye o alla buonanima di Stephen Hawking: sostengono che la filosofia non serve più a nulla, poiché tutto quel che può essere detto lo dirà la scienza. Però incorrono in qualche contraddizione: lo stesso Hawking, quando si dichiara ateo, fa un’affermazione metafisica. Mica si può dimostrare la non esistenza di Dio attraverso lo studio dei buchi neri…
Se prendi l’ultimo libro di Hawking sulla cosmologia, trovi in apertura la dichiarazione che la filosofia è morta perché non contribuisce alla scienza. Però tutto il resto è un libro di filosofia della cosmologia. In sostanza, Hawking non s’è accorto di aver scritto un libro di metafisica. Quest’ostilità nasce dall’ignoranza. Una volta chiesi a deGrasse Tyson se avesse mai letto un libro o una ricerca tecnica di filosofia, e lui rispose di no. Allora di che cosa stiamo parlando? Il problema è che queste persone, disprezzando la filosofia, influenzano gran parte del pubblico. Torniamo alla questione della democrazia: il pensiero critico è fondamentale per una società democratica e liberale. E la filosofia è la fonte principale del pensiero critico.
Molti atei sono militanti, come Richard Dawkins e Sam Harris: divulgano l’ateismo, spesso con uno stile aggressivo e con l’intento di demolire la religione. È il cosiddetto Ateismo 2.0, così definito per marcare la differenza con gli atei della generazione precedente, che mantenevano un profilo più basso e meno polemico. Tu però sei critico verso questa militanza. Perché?
Come ho detto, ho vissuto per parecchi anni nella Bible Belt, cioè in una società nella quale la maggioranza delle persone aderisce al fondamentalismo religioso. E la militanza atea non funziona, fidati. Semmai produce il risultato opposto. Gli atei militanti però sostengono di aiutare tanta gente a uscire allo scoperto. È possibile. Tuttavia, essendo scienziati, dovrebbero essere più cauti nelle loro affermazioni. Che io sappia, non esistono dati sociologici che le confermino né studi scientifici sugli effetti del nuovo ateismo sulla società. Nessuno sa davvero quante persone siano state aiutate o deconvertite. Ora, siccome i nuovi atei pretendono di essere razionali e di voler fondare la propria posizione su dati empirici, non dovrebbero fare questi pronunciamenti notevoli ma basati solo su aneddoti. Ossia un modo di argomentare che loro per primi, peraltro giustamente, criticano.
Perciò la militanza atea non ha un’efficacia dimostrata. A maggior ragione se è aggressiva?
È una questione, in un certo senso, di filosofia di vita: l’aggressività non va bene, non è accettabile. Se hai la ragione dalla tua parte, offri i tuoi argomenti e da’ tempo agli altri per rifletterci sopra. Essere aggressivi non solo è inefficace, ma è proprio sbagliato. Certo, quando l’aggressività arriva dall’altra parte, se ci si trova di fronte a un fondamentalismo religioso violento, bisogna agire per neutralizzarlo. Ma guarda che la maggior parte dei credenti, anche fra i fondamentalisti, non è per nulla violenta. Questa retorica usata da molti fra gli scienziati e i filosofi atei non è né basata su evidenze empiriche né accettabile sul piano morale.
Tu ti definivi un umanista secolare. Ora non più. Ora sei uno stoico secolare. Che cosa significa?
Mi sono interessato alla filosofia stoica per diversi motivi, il principale dei quali era la sensazione di una mancanza nell’umanismo secolare. A un certo punto mi è sorto il dubbio che fosse solo una lista di idee che mi piacevano, che mi sembravano giuste, buone e accettabili. Se vai a leggere le diverse edizioni del manifesto dell’umanismo secolare trovi questo: un elenco di idee.
Però quelle idee ti piacciono ancora.
Sì, ma una lista non fa una filosofia organica e strutturata. Una filosofia te la devi costruire dopo. Quindi per diversi anni ho cercato un’alternativa più rigorosa, specie quando ho iniziato a studiare filosofia a livello accademico. La prima nella quale mi sono imbattuto è stata l’etica della virtù.
Perché l’etica della virtù è tanto importante?
Perché serve da un punto di vista pratico e non solo sul piano dei grandi princìpi. È ovvio che i diritti umani sono importanti, ma poi io devo avere una guida per decidere come comportarmi nella vita quotidiana, quando interagisco con i miei studenti, con i miei amici, con mia figlia.
E quale etica della virtù hai trovato?
Fra gli umanisti secolari le versioni più diffuse dell’etica della virtù sono quella aristotelica e quella epicurea. Soprattutto Epicuro è abbastanza popolare per la sua metafisica materialista. Infatti molti lo considerano ateo. In realtà Epicuro era un deista, credeva che Dio stesse solo a contemplare sé stesso e non gli importasse nulla di tutto il resto. Anch’io ho nutrito simpatie per l’etica epicurea, ma ben presto mi è parso evidente come né Aristotele né Epicuro facessero al caso mio. Aristotele è un aristocratico. Secondo lui, la vita meritevole di essere vissuta è basata non solo sulla virtù del carattere, ma pure sulla fortuna. Ti deve andare bene: devi essere educato, intelligente, facoltoso e anche un po’ belloccio.
E questo taglia fuori dalla possibilità della virtù tutti gli sfigati privi di qualità naturali.
Sì, quella di Aristotele non è una filosofia universale. D’altronde Epicuro propone una virtù basata sui piccoli piaceri della vita, soprattutto quello dell’amicizia. Però sostiene che, se vuoi vivere una vita felice, devi ritirarti dal mondo politico e sociale, perché ti procura dolori mentali, emotivi, esistenziali. E a me sta stretta una filosofia così.
E dunque?
Dunque a quel punto avevo la consapevolezza che l’umanismo secolare andava bene ma era insufficiente, però non avevo ancora ben chiaro quale potesse essere la mia etica della virtù. Finché un giorno non ho ricevuto un tweet nel quale si invitava a partecipare alla Settimana stoica. Io ero curioso e ho cliccato sul link. Ho scoperto che era organizzata da un gruppo di filosofi e di psicologi che applicano la terapia cognitivo-comportamentale. Che cosa interessante! Mi sono scaricato il manuale per la vita da stoico, con letture ed esercizi, mi sono applicato per una settimana, ho chiesto suggerimenti per continuare. Così ho verificato dei cambiamenti evidenti nel mio pensiero e nel mio comportamento: ero più calmo e meno irritabile. Ora da quattro anni vivo da stoico secolare.
Ti confesso che alcuni episodi della tua vita lasciano l’impressione di una pratica quasi super-umana. Per esempio, quando racconti del borseggio subito in metropolitana una sera in cui stavi andando a cena da tuo fratello e da sua moglie e di come hai relativizzato da stoico la perdita dei soldi e dei documenti, senza farti rovinare la serata. Diamine! Ma come fai? Se succedesse a me, mi incazzerei. Non sarà consono a un ateo, ma a forza di moccoli tirerei giù il pantheon di cinque civiltà.
(Ride.) Ti capisco. Anche a me avrebbe rovinato la serata e anch’io avrei dato in escandescenze, prima di praticare lo stoicismo. Ma in questo sta l’efficacia della pratica stoica. La filosofia è semplice. Non è «rocket science», per usare un’espressione degli americani. I testi fondamentali sono accessibili: puoi leggere Epitteto, Seneca e Marco Aurelio senza difficoltà. Ti sfido a fare lo stesso con Hegel. Quindi non serve un grande background per accedere agli autori stoici. In compenso è fondamentale la pratica, l’attenzione nelle piccole cose che poi ti permette di estendere l’atteggiamento stoico ai problemi più grandi. È anche la base della psicoterapia cognitivo-comportamentale, sviluppata negli anni ‘60 appunto ispirandosi allo stoicismo e in seguito diventata una pratica consolidata e confermata da evidenze scientifiche. In due millenni le tecniche stoiche si sono stabilizzate e hanno dimostrato di funzionare. Servono soprattutto pazienza e pratica, tanta pratica. Io stesso mi sono stupito nel vedere gli effetti su me stesso. Tuttora la reazione immediata è la rabbia, ma subito subentra un riflesso automatico: «Calma. Rallenta. Rifletti. Perché ti agiti così? Ne vale la pena? Puoi farci qualcosa?». Gli antichi stoici proponevano l’analogia con la palestra: al principio fai una gran fatica e i muscoli sono doloranti, però insistendo va sempre meglio. Questa pratica ti accompagna per tutta la vita, ma i primi miglioramenti li constati dopo pochi mesi.
Tu comunque non ti sei limitato alla pratica. Sei diventato un esponente dello stoicismo moderno.
Sì, lo si definisce in questo modo per distinguerlo dallo stoicismo antico e dal neo-stoicismo diffuso nel Rinascimento e fondato da Justus Lipsius, al quale viene associato anche Montaigne. Io sono un insegnante e uno scrittore, perciò mi viene quasi naturale, quando mi interesso a un argomento, finire per insegnarlo e scriverne. La mia attività pubblica come stoico è cominciata nel febbraio del 2015 con la pubblicazione di un articolo su The Stone, la rubrica on line di filosofia di «The New York Times». Per loro avevo già scritto contributi sulla filosofia della scienza, ma mi sembrava interessante raccontare anche l’esperimento di pratica dello stoicismo che io, filosofo professionista, stavo facendo su me stesso. L’articolo ha avuto un successo strepitoso e inatteso: quel giorno è stato uno dei più cliccati non solo della rubrica filosofica, ma di tutta la testata. A quel punto mi hanno cercato le case editrici per propormi di scrivere un libro e, dopo qualche incertezza, ho accettato. Dall’Italia mi ha chiamato Garzanti e ci siamo accordati per tradurre in italiano il libro che avevo scritto in inglese e che è uscito con il titolo «Come essere stoici»: il mio dodicesimo libro e il primo e finora l’unico tradotto in italiano.
Cosa dice lo stoicismo sull’esistenza di Dio?
Lo stoicismo è neutrale dal punto di vista metafisico. Gli antichi stoici erano per la maggior parte panteisti. Ma si può pure essere teista o deista e nel contempo stoico. Il neostoicismo rinascimentale di Lipsius cercava di conciliare lo stoicismo con il cristianesimo. D’altra parte, delle sette virtù cristiane, quattro sono anche stoiche. Oggi lo stoicismo secolare è dominante, ma rimane aperto sul piano metafisico. Si può essere stoici e credenti, stoici e buddhisti.
Stoici e atei. Come ha influito il tuo stoicismo sul tuo ateismo?
Mi ha reso più tollerante riguardo alle credenze. Per chi pratica lo stoicismo è fondamentale come si manifesta il carattere delle persone nelle virtù cardinali: prudenza, saggezza, giustizia e temperanza. Conosco molti che le praticano senza dichiararsi stoici, e hanno tutto il mio rispetto. Perciò importa poco se si è credenti o meno. Tu e io possiamo anche avere idee metafisiche divergenti: non c’è problema. A me importa piuttosto se tu sei una persona decente, se ti comporti in modo giusto verso gli altri. Ma essere atei non dà affatto la garanzia di essere una persona decente.
Choam Goldberg
(Foto: Simon Wardenier)
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