È una polemica antica. Antica e assurda. Perché si può essere atei e nel contempo agnostici. Anzi si deve. Ma per il Dio abramitico si può e si deve essere atei e basta.
Ricordo una chiacchierata di quasi 30 anni fa con Giuliano Toraldo di Francia, una sera a cena al termine dei lavori di un workshop. Si parlava del problema teologico, e lui mi disse: «Tu sei ateo, ma non sei davvero razionale, perché non puoi dimostrare che Dio non esiste. Il tuo è un atto di fede. Io invece sono razionale, perché sono agnostico. Dio c’è? Dio non c’è? Non lo so». A quell’epoca ero un ventenne sprovveduto e non seppi rispondergli.
Non solo è antica: è anche una polemica assurda. Infatti si può essere atei e nel contempo agnostici.
D’altronde è una polemica antica. Da una parte gli agnostici, a rimproverare gli atei perché «non potete mica dimostrare che Dio non esiste, quindi la vostra è una fede». Dall’altra gli atei, a sfottere gli agnostici perché «siete solo dei pavidi incapaci di ammettere la non esistenza di Dio». Non solo è antica: è anche una polemica assurda. Infatti si può essere atei e nel contempo agnostici. Meglio ancora: si deve.
Ma anzitutto di che cosa parliamo? Ovvero: chi è Dio? Per discutere di ateismo e di agnosticismo dobbiamo definire l’oggetto della nostra negazione. Lo abbiamo già detto: può essere un’entità trascendente, giustificatrice e forse anche creatrice della realtà immanente, oppure una divinità personale e consapevole, interessata al destino degli umani, magari perfino coinvolta nelle loro vicende. Occupiamoci allora del Dio dei deisti.
D’altro canto io «penso» che Dio non esista. Non lo «so», poiché non ne possiedo la dimostrazione. Ma nemmeno mi serve, del resto.
Bisogna distinguere due verbi: «sapere» e «pensare». Il primo è il verbo della conoscenza, l’epistème. Il secondo quello dell’opinione, la doxa. Per esempio, io «so» che l’universo è in espansione e che gli esseri viventi sono sottoposti all’evoluzione naturale. Non ne ho la certezza assoluta, però possiedo un’enorme collezione di prove a favore. Magari in futuro altre osservazioni inattese mi costringeranno a modificare le mie teorie. Tuttavia gli argomenti noti ora sono sufficienti per garantirmi una ragionevole certezza della mia conoscenza. D’altro canto io «penso» che Dio non esista. Non lo «so», poiché non ne possiedo la dimostrazione. Ma nemmeno mi serve, del resto.
L’onere della prova spetta sempre a chi sostiene l’esistenza di un’entità. «Non puoi provare che non esiste, quindi esiste»: l’ho sentito affermare da qualche credente, ma è il più stupido degli argomenti. Se fosse accettabile, esisterebbero anche Babbo Natale e la teiera di Russell. Non puoi dimostrare che non esistono? Quindi esistono. Ah ah. Un’idiozia palese.
Perciò, quando un fedele ti domanda per quale motivo non credi in Dio, la risposta migliore è: «Perché, dovrei?». Insomma fornisca lui, il credente, un argomento cogente a favore. Siccome quest’argomento non c’è, tanto basta per non dover credere in Dio. Ma basta anche per dedurre la non esistenza di Dio?
In questo senso siamo atei e agnostici: pensiamo ma non sappiamo, non crediamo nel Dio dei deisti ma restiamo aperti alla possibilità di cambiare idea.
No. Infatti l’assenza della prova non è la prova dell’assenza. Certo, se osserviamo l’universo comprendiamo come sia più semplice – e quindi più verosimile, nel rispetto del rasoio di Occam – l’ipotesi che non esista, ma questo è un forte e ragionevole indizio, non una dimostrazione. Dio potrebbe esistere in barba al rasoio di Occam. In questo senso siamo atei e agnostici: pensiamo ma non sappiamo, non crediamo nel Dio dei deisti ma restiamo aperti alla possibilità di cambiare idea. Sulla scala di Dawkins siamo a 6.
In conclusione, non bisogna confondere fra la credenza nella non esistenza («So che Dio non esiste») e la non credenza nell’esistenza («Non penso che Dio esista»). Però, però…
Il Dio dei monoteismi abramitici, per intenderci: ebraismo, cristianesimo, islam. Ebbene, quel Dio lì non esiste. Non ci limitiamo a «pensarlo», ma lo «sappiamo».
…però abbiamo lasciato in sospeso l’altro Dio. Quello personale e coinvolto nelle vicende umane. Quello che ti dice che cosa è bene e che cosa è male, che cosa devi e che cosa non devi fare. Il Dio dei monoteismi abramitici, per intenderci: ebraismo, cristianesimo, islam. Ebbene, quel Dio lì non esiste. Non ci limitiamo a «pensarlo», ma lo «sappiamo». Con certezza. Perché di quel Dio si può fornire la prova della non esistenza. Semplice e definitiva: l’argomento della teodicea. Dovendo essere buono e onnipotente e onnisciente, sarebbe incompatibile con un fatto inoppugnabile: l’esperienza universale del dolore innocente. Non se ne viene fuori, se non con il trucchetto del Mistero della fede, cioè la squallida scappatoia di chi non sa rispondere all’argomento e si riduce a insultare la tua intelligenza. Perciò per il Dio abramitico sulla scala di Dawkins siamo a 7.
Dopo avermi rimbrottato per il mio presunto ateismo fideista, Giuliano Toraldo di Francia aggiunse: «Io non so se Dio c’è o non c’è. Non sono sicuro. Però di una cosa sono sicuro…». Si guardò in giro, assunse un’aria complice, abbassò la voce e… «…il Dio dei cattolici, il Dio dei miracoli e del Sacro cuore di Gesù, il Dio della Madonna e dei Santi… ecco, quel Dio lì non c’è. Quel Dio lì sono proprio sicuro sicuro sicuro che non esiste». Ricordo ancora il suo sguardo divertito.
Choam Goldberg
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