Sono diventato cattolico

Non sto scherzando: l’ho fatto davvero. Ed è stata un’esperienza interessante.


L’identità può essere ideologica o non ideologica. La prima te la scegli, la seconda no. Per esempio, sono identità non ideologiche l’etnia, il sesso, l’orientamento sessuale. Mica uno decide di nascere nero o femmina o gay. Sono identità ideologiche le fedi religiose e le appartenenze politiche: uno è musulmano o nazista perché vuole esserlo.

Proprio perché innate, le identità non ideologiche non devono e non possono essere giudicate: essere nero non è peggio che essere bianco, essere gay non è una colpa. Le identità ideologiche invece ammettono la possibilità di un giudizio. Infatti alcune idee sono assurde e altre perfino abominevoli. E io giudico, eccome se giudico. I credenti nel Dio abramitico li considero ignoranti e/o ottusi e/o creduloni. E li perculo con frequenza e godimento. Ai fascisti e ai nazisti poi nemmeno rivolgo la parola, guarda un po’. Non pretendo che le loro credenze e convinzioni siano censurate: il Corano e «Mein Kampf» dovrebbero poter essere letti da chiunque. Inoltre i bigotti e i fascisti devono poter parlare, riunirsi e praticare i propri riti, beninteso finché non limitano la libertà e non ledono l’incolumità altrui. Ma, come loro godono del diritto di raccontare assurdità e fare stronzate, io rivendico il diritto di sfotterle e di evitarli. Se non garba loro, smettano di essere bigotti e fascisti. Giusto? Ah ah. Giusto.

Ma aspetta un momento…

A questo punto mi sorge un dubbio: quanto è davvero una scelta un’identità ideologica? Per esempio, si può smettere di essere bigotti? Be’, sì, dai. Basta… ‘spetta… basta, ecco… no, un momento: io mica lo so se si può. Come faccio? Io non sono bigotto. Quindi… però, siccome credere in Dio è una scelta, allora… ma è una scelta? Certo che è una scelta. Io ho scelto di non crederci e quindi… No, ‘spetta… io ho scelto di non credere in Dio? Oh, cazzo. Non lo so. Mi sembra di no: non ho scelto di essere ateo più di quanto abbia scelto di essere eliocentrista. L’inesistenza del Dio abramitico è un fatto palese e non posso negarlo. Perciò non posso smettere di essere ateo più di quanto possa smettere di essere bianco o gay. Ma un credente potrebbe dire lo stesso: «Per me l’esistenza di Dio è un fatto palese e non posso negarlo». Dunque non può essere perculato per la sua fede più di quanto possa essere perculato per la sua etnia o per il suo orientamento sessuale. Oppure no? Oppure le convinzioni sono scelte? Se sono scelte, possono anche essere cambiate, giusto? Insomma, la prova provata dell’identità ideologica come scelta si ha nel momento in cui si compie una scelta differente. E anch’io posso cambiare la mia scelta. Ma posso?

Ok, ci provo.

Sicché l’ho fatto: ho compiuto su me stesso questo esperimento psicologico e ho deciso, in piena consapevolezza, di credere in Dio. Anzitutto per capire se è possibile e poi per vedere l’effetto che fa.

Già, ma quale Dio? Poiché sono ebreo, avrei potuto rivolgermi alla divinità della mia tradizione familiare: Yahweh. Tuttavia mi è sembrato troppo comodo, quasi scontato: non posso dimenticare di essere stato un bambino ebreo credente e non volevo farmi condizionare da reminiscenze infantili. Quindi ho preferito orientarmi verso una fede che non è mai stata la mia ma che conosco bene perché permea la mia società: il cattolicesimo. Una religione peraltro carica del ciarpame dogmatico assurdo accumulato in due millenni, in quantità ben maggiore rispetto all’ebraismo. In compenso il cattolicesimo impone meno tabù e prescrizioni: meglio così, ché tanto doveva essere una sfida intellettuale, non una prova di coerenza. Del resto ricordo bene gli shabat a casa dei miei nonni quand’ero piccolo: una rottura di coglioni micidiale. No, no, grazie. Mai più.

Mi sono anche imposto un lasso di tempo limitato: quattro giorni. Dalla mattina del venerdì santo fino alla sera del lunedì di Pasqua ho considerato veri tutti i dogmi della Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Tutti tutti: l’esistenza di Dio, la risurrezione di Cristo, la Trinità, la verginità di Maria, la transustanziazione, la risurrezione della carne eccetera. Senza eccezioni. In quei quattro giorni ho pregato Dio molte volte e la domenica di Pasqua ho assistito alla Messa, beninteso senza prendere la comunione, perché sarebbe stato un sacrilegio, ma contemplando con devozione l’ostia che è il corpo di Cristo, durante l’elevazione. Ho ripassato le Verità di fede e ciascuna l’ho considerata vera, per quanto illogica e paradossale.

In quei quattro giorni ho cercato di essere onesto con la mia razionalità. Non l’ho rinnegata. Ho considerato tutte le contraddizioni e le assurdità. Ciononostante ho scoperto che è possibile ignorarle e pensare, con sincera convinzione e come atto di volontà: «È pazzesco, ma ci credo lo stesso. Dio esiste, è buono e onnipotente e mi ama. Gesù Cristo è risorto. Quel pane è il Suo corpo, quel vino è il Suo sangue. Quello che non capisco adesso lo capirò quando morirò e tutto mi sarà chiaro».

Prima constatazione: si può fare. Perfino un ateo inossidabile può riuscirci. Ora tu obietterai: «Ma non è possibile. Tu fingevi, Choam. La tua ragione ti diceva con certezza che sono stronzate». Vero: la ragione mi diceva proprio questo. Eppure non fingevo. Infatti si può bypassare la ragione. Fidati: si può. Certo, si cade vittima di una dissonanza cognitiva. Ma sai che c’è? Basta ignorarla. È un’esperienza simile alla sospensione dell’incredulità durante la lettura di un libro o la visione di una serie televisiva fantasy: sai che non esistono i draghi volanti, ma accetti come un fatto che Daenerys piombi dal cielo sulla groppa di Drogon per sterminare l’armata dei Lannister. Oppure, nella vita reale, a una ricostruzione storica: nel momento in cui partecipi con il tuo costume, in mezzo agli altri figuranti, tu pensi davvero di essere nel Rinascimento. È la stessa cosa. La fede però è permanente: è una «fede nella realtà assoluta della soggettività», come l’ha definita Feuerbach. Con questa fede si può arrivare ovunque, perfino al creazionismo della Terra giovane: «La scienza lo nega? Chissenefrega, io ci credo lo stesso».

Seconda constatazione: non è male. Sul serio, eh: non è niente male. Credere nell’esistenza di un Dio che ti ama, dà un senso alla tua vita e ti accoglierà nel suo amore dopo la tua morte è un’esperienza consolante. Falsa, ma consolante. Capisco il fascino che può esercitare su chi ha priorità diverse dalle mie. Un fascino pericoloso: se la tua razionalità non è molto salda, il rischio di restare intrappolato in quella fantasia non è trascurabile. Perciò, bambini, non provate a farlo da soli a casa, senza la supervisione di un adulto ateo.

Come dici? Perché allora non sono rimasto cattolico? Perché non mi sono ritirato per sempre in quel mondo irrazionale ma confortante? Ma per le mie priorità, appunto. Perché è indegno della mia intelligenza, la mia cultura, il mio spirito critico. Perché voglio capire, non credere. Perché cerco i fatti, non le sensazioni. Perché per me la verità razionale conta più dell’illusione irrazionale. Perché desidero conoscere la realtà com’è, non come mi fa star bene credere che sia. Perché la fede, per quanto consolante, resta un atto intellettuale ignobile. Perché «Sapere aude».

Lo so: è stato solo un esperimento brevissimo. Che cosa mai si potrà concludere in soli tre giorni? Avrei dovuto impegnarmi per tre mesi. O perfino per tre anni. E magari anche portare a termine l’intero processo con i sacramenti, dal battesimo fino alla comunione e alla cresima. E pure fare qualche pellegrinaggio. Allora forse sul lungo termine la dissonanza cognitiva sarebbe diventata intollerabile. Può darsi. Nondimeno sul breve termine si può sopportare: questo almeno l’ho verificato, ed è già qualcosa.

In conclusione, l’identità ideologica è davvero una scelta. Come tale, può essere giudicata. Male, com’è ovvio. Se i bigotti dissentono, han da fare solo una cosa: provare a cambiare scelta, come ho fatto io, e vedere l’effetto che fa. Poi semmai se ne riparla.

Choam Goldberg

«I can’t believe that!» said Alice.
«Can’t you?» the Queen said in a pitying tone.» Try again: draw a long breath, and shut your eyes.»
Alice laughed. «There’s no use trying,» she said: «one can’t believe impossible things.»
«I daresay you haven’t had much practice,» said the Queen. «When I was your age, I always did it for half-an-hour a day. Why, sometimes I’ve believed as many as six impossible things before breakfast.»
– Lewis Carroll, «Through the Looking-Glass»


Aggiornamento

Dopo riflessioni e discussioni nella community de L’Eterno Assente, sono giunto a una revisione delle conclusioni esposte in questo articolo. Revisione che ho riassunto e spiegato in un video.


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