Espatriato a Londra (anche) per liberarsi dei tabù sociali e culturali italiani, Giovanni Gaetani spiega la filosofia senza supercazzole.
Tira aria di Brexit. Che cosa significherà per l’Unione Europea e per il Regno Unito ancora non è chiaro. Men che meno è chiaro che cosa significherà per gli inglesi – e gli scozzesi e i gallesi e i nordirlandesi, pure – e per i continentali espatriati e residenti in Albione. Così, a istinto, vien da dire: cazzi amari. Staremo a vedere. Se però il rischio è il rimpatrio, io avrei una modesta richiesta per Theresa May: hai presente Giovanni Gaetani? Sì? Ecco, fammi un favore: tientelo. Tienilo lì, per cortesia. Mica per noi, eh. Ma per lui. Ché tornare quaggiù, in questo buco bigotto e ottuso, non gli farebbe granché bene né al corpo né allo spirito.
Il Gaetani – m’è sempre piaciuta ‘sta cosa dell’articolo prima del cognome maschile, che invece al femminile è così sessista – ormai lo conosciamo bene. È comparso nel panorama editoriale alcuni mesi or sono con un librino pubblicato da Nessun Dogma, «Come se Dio fosse antani», modesto e insieme ambizioso. Modesto perché è un affarino di 138 pagine: niente che non si possa macinare in tre ore. Ambizioso perché vuole raccontare con parole semplici la filosofia. Di più: la teologia, cioè una stupefacente pippa mentale costruita sui miti e sugli archetipi ma del tutto priva di fondamenti razionali. E ci riesce, il Gaetani, ci riesce, con uno stile colloquiale, scorrevole, financo divertente (cazzo, oggi mi partono avverbi e aggettivi desueti, chissà che mi son fumato).
Nei mesi scorsi il Gaetani si è speso in un lungo tour di presentazione del librino in giro per l’Italia e l’Europa, con una veloce puntata in terra elvetica. Ciò lo ha ridotto a uno straccetto. Nondimeno sembra essersi ripreso durante le vacanze estive a base di tuffi dagli scogli e di cene ai frutti di mare. Ripreso quanto basta almeno per riprendere il lavoro a Londra presso l’IHEU, ossia l’International Humanist and Ethical Union, dove fa il missionario. Cioè, farebbe il missionario se l’IHEU fosse una Chiesa. Di fatto il Gaetani si occupa della promozione della laicità, della libertà di pensiero e più in generale dei valori umanisti in giro per il globo terracqueo. In particolare, i mesi scorsi lo hanno visto assai impegnato in Sudamerica, dove ha fatto sfoggio del suo fluente spagnolo.
Insomma il giovine è intelligente, colto, ironico. Ma soprattutto è molto innamorato: di sé stesso, ça va sans dire. Sicché non poteva negarsi alla richiesta di un’intervista a beneficio delle moltitudini dei lettori de L’Eterno Assente (ah ah). Dunque eccolo qua, collegato via Skype dalla cucina della sua magione londinese, per rispondere alle domande solite e anche a quelle un po’ più insolite.
Giovanni, tu ti definisci ateo o agnostico?
Ateo e agnostico. Insieme.
È possibile?
Non c’è contraddizione. Sono agnostico rispetto all’esistenza di Dio: se mi chiedi se sono sicuro al 100% che non esista, ti rispondo di no. Ma per una questione epistemologica: definito Dio come un essere trascendente al di là delle nostre possibilità di conoscenza, non posso escludere con certezza che esista. Però non si può essere agnostici in atto: nel momento in cui vivi, devi prendere una decisione. Devi vivere con o senza Dio. Perciò io vivo come se Dio non esistesse.
Hai ricevuto un’educazione religiosa?
Ahimè, sì. (Ride.) Sono stato abbastanza fortunato. Infatti la mia educazione religiosa non è mai stata troppo ferrea né severa. Io provengo da un paese di 20 mila abitanti, in una provincia del Lazio meridionale, dove il 90% della popolazione è cattolica. La mia famiglia è stata a lungo credente, ma di un credo per tradizione, come gran parte degli italiani.
In che senso «è stata»? La tua famiglia non è più credente? L’hai deconvertita tu?
A eccezione di mia sorella, se glielo chiedi ti risponderanno che no, loro non sono atei. Eppure in pratica è così: non sono più credenti.
E in questa famiglia…
…in questa famiglia, quando avevo circa 12 anni, si è verificato un inasprimento della pressione religiosa, tanto da farmi andare a messa ogni domenica.
È iniziata allora la tua deconversione? Ed è stata graduale oppure improvvisa?
È stata lentissima: un percorso faticoso, individualista, solitario. All’inizio avevo perfino paura nel definirmi «ateo».
Paura?
Sì, perché ancora oggi in Italia l’ateismo è una sorta di tabù. Nel mio percorso ci sono state quattro fasi. La prima, classica e comune a molti atei, è stata il rifiuto della Chiesa: non me la prendevo né con Dio né con la religione, ma con l’istituzione, traditrice del messaggio di Cristo. È stata la mia fase anticlericale. Così mi sono messo a leggere la Bibbia da solo, senza intermediari: è stato un grande errore.
Un grande errore? In che senso?
(Ride.) Un grande errore per un credente. Infatti quella lettura mi ha mostrato le contraddizioni logiche e morali del testo sacro. A quel punto ero passato da teista autodidatta a deista agnostico, ed è stata una fase breve e confusa. Ero convinto che le religioni fossero tutte invenzioni umane, ma pensavo che esistesse almeno qualche principio superiore.
Quando e come hai manifestato esplicitamente il tuo ateismo?
Per cominciare a usare l’aggettivo «ateo» per definire me stesso mi ci sono voluti quattro anni. Dentro di me vedevo l’ateismo con gli occhi del cattolico: lo consideravo volgare, una scelta militante, estrema, fondamentalista. Per accettarlo e accettarmi ho dovuto fare un lungo lavoro su me stesso. Anche per risolvere questi problemi mi sono iscritto a Filosofia, a Roma Tor Vergata: un’università e un corso di laurea molto influenzati dal pensiero cattolico. Non lo sapevo prima di iscrivermi, ma per cinque anni mi sono trovato a dover studiare soprattutto filosofi molto credenti che includevano Dio nei propri sistemi di pensiero. Così io dovevo sostenere un doppio sforzo per trovare uno spazio per quello che nel frattempo era diventato il mio ateismo. Ateismo che in Italia è un tabù anche filosofico, non solo culturale e sociale. Quest’ultima fase, da ateo dichiarato, si è coronata in occasione del mio 25esimo compleanno, con lo sbattezzo. Perciò, come vedi, avendo iniziato a dubitare verso i 14 anni ed essendo diventato, anche simbolicamente, ateo a 25, mi ci è voluto più di un decennio per completare la mia deconversione.
Ti sei mai sentito discriminato per il tuo ateismo, sul piano personale o professionale?
Sì, ma con una premessa importante: il termine «discriminazione» va usato con cautela. Da quando lavoro per l’IHEU ho conosciuto persone che nei loro Paesi rischiano davvero la vita ogni giorno solo perché sono atee. Quella sì è vera discriminazione. Detto questo, posso dire di essermi sentito discriminato in famiglia, sebbene alla fine anche i miei familiari abbiano seguito un po’ lo stesso mio percorso. E mi sono sentito discriminato all’università, quando i professori assumevano nei miei confronti un atteggiamento ironico, quasi provocatorio.
E poi?
Poi Londra: quello è stato un cambiamento radicale. Qui ho scoperto l’umanismo e mi si è aperto un mondo. Questo è un Paese nel quale il 53% della popolazione dice di non riconoscersi in alcuna religione: un dato che ti dà la misura di quanto sia open minded questa società, dove nessuno teme di dichiararsi ateo o di criticare la religione.
Il tuo lavoro ha determinato o rafforzato il tuo ateismo?
Lo so che pare brutto dirlo, ma di fatto sono arrivato a non metterlo più in dubbio. Ormai è un aspetto di me stesso che ho accettato al punto che quasi mi è venuto a noia parlarne. Trovarsi a lavorare con persone che la pensano come te e che non ti giudicano ti fa capire come l’ateismo sia una condizione del tutto normale: un’enorme differenza rispetto all’Italia, dove a volte sembra quasi più facile e accettato fare coming out da omosessuale che da ateo.
Per te l’esistenza di Dio è argomento di discussione con altre persone?
Lo è stato tantissimo in passato, specie all’università. Allora era una ginnastica quotidiana, una palestra di pensiero nella quale dovevo confrontarmi con professori e studenti credenti e difendere il mio ateismo. Oggi non lo è quasi più, perché vivo in un ambiente nel quale è così assodata la non esistenza di Dio che non si sente neanche più il bisogno di discuterne. Mi sembrerebbe di fossilizzarmi su questi argomenti, mentre sono altre le priorità: la laicità, i diritti civili, la libertà di pensiero, la razionalità.
Come giustifichi oggi il tuo ateismo? Se dovessi spiegare a qualcuno per quale motivo non credi in Dio, quale argomento gli proporresti? Uno e uno solo: il più convincente.
La risposta è facile: l’esistenza della sofferenza innocente. Il problema della teodicea, insomma. Mi limito al dolore dei bambini perché ci saranno sempre migliaia di modi per giustificare la sofferenza degli adulti. Ma io sono ateo, profondamente ateo, perché i bambini soffrono e muoiono e mai e poi mai questo dolore potrà trovare posto in un piano divino. L’esistenza della sofferenza innocente è un’assurdità che ci viene messa sulla lingua e spetta a noi decidere se ingoiarla o sputarla. Io la sputo, ma molti la ingoiano senza capire che cosa implichi davvero, ossia che accettare il dolore dei bambini come parte del disegno di Dio significa considerarlo giusto. Il drammaturgo Georg Büchner ha scritto: «Perché soffro? È questa la roccia dell’ateismo».
Dio non è necessario nemmeno per garantire un comportamento morale degli esseri umani?
Semmai il contrario. Lo diceva anche Feuerbach: fondare la moralità in Dio significa esporla all’arbitrarietà e permetterle di giustificare qualsiasi comportamento. La grande rivoluzione di Kant è consistita nell’invertire i termini: le cose sono giuste non perché Dio le vuole, ma Dio le vuole perché sono giuste. Anche se non è la mia prospettiva, com’è ovvio. Dunque no, non penso che Dio serva per fornire una legge morale. Eppure al tempo stesso non siamo pronti per il passo successivo: una morale senza Dio. Siamo in un limbo. La morte di Dio la stiamo vivendo adesso e non l’abbiamo ancora compresa né metabolizzata.
Puoi escludere la possibilità di iniziare a credere in Dio?
Mmm… sì. (Esita.) Direi di sì. (Sbuffa. Fa smorfie strane.) Sì, perché in tutti i periodi più difficili della mia vita ho pensato che cercare di uscirne rivolgendomi a Dio sarebbe… (Esita ancora.) …volgare.
Volgare?
Esteticamente volgare. Orribile. Sarebbe troppo facile. Sarebbe una scorciatoia, un inganno. Sarebbe come barare.
Che genere di prova considereresti convincente per accettare l’esistenza di Dio?
Di sicuro non una visione. Infatti se mi apparisse Dio dubiterei anzitutto di me stesso: sospetterei di essere impazzito. Del resto sappiamo bene quanto sia brava la mente nell’autoingannarsi, anche senza l’uso di sostanze psicotrope. Certo, potrei credere in Dio se lo incontrassi dopo la morte. Ma, come Stephen Fry, lo rimprovererei per aver permesso la sofferenza innocente, per non averci fornito prove chiare della sua esistenza e in fin dei conti per averci messi in una condizione nella quale credere in lui sarebbe sbagliato.
L’esistenza umana può avere un senso anche senza Dio?
La risposta politicamente corretta è sì: l’esistenza umana può avere un senso anche senza Dio.
C’è anche una risposta politicamente scorretta?
Diciamo meno politicamente corretta. Non è così semplice dire quale sia davvero il senso dell’esistenza. Nei momenti più difficili è uno sforzo degno di Sisifo. In assenza di Dio, la felicità e il senso del cosmo diventano una questione umana, da regolare fra esseri umani: uno sforzo sempre esposto al rischio di fallire. Laddove per il credente il senso è da trovare e accettare così com’è, per l’ateo il senso si crea, si costruisce. Ma come? Per l’ateo un certo nichilismo di fondo è inaggirabile. Ecco, io non sono mai riuscito a sganciare il mio ateismo dal nichilismo. Vivo il primo come risposta all’evidenza insopprimibile del secondo.
E qual è il tuo personale senso dell’esistenza adesso?
Ma lo sai che sei stronzo?
Ho studiato per diventarlo. Ho anche un master di secondo livello. Ora però le domande le faccio io. Perciò non svicolare e rispondi.
Quest’intervista somiglia sempre di più a una seduta di psicoterapia. (Ride.) Nella mia vita fare qualcosa per migliorare la società e la vita delle altre persone è fondamentale. È una fonte di senso. Quindi io vivo il mio attivismo da ateo e da umanista come una necessità, nel suo doppio significato: lo faccio perché è necessario ma anche perché non riesco a non farlo. È una scelta e nel contempo una costrizione.
Se dovessi demolire la fede di un credente, quale argomento gli proporresti?
Mi chiedi di indossare i panni del filosofo col martello, «à la Nietzsche». Be’, forse punterei sull’innegabile evidenza che esistono moltissimi dèi differenti e ognuno pretende di essere l’unico vero Dio, mentre dal punto di vista logico è impossibile determinare quale lo sia davvero. Questo è l’argomento più chiaro, più limpido. Tuttavia in risposta mi aspetto sempre dal credente l’argomento della fede o qualche supercazzola teologica. Infatti la fede ha questo di strabiliante: non la scalfisci con niente, neanche con la logica.
È utile demolire la fede altrui, oppure ciascuno è libero di credere quel che vuole?
No, non soltanto è inutile, ma è proprio sbagliato. Il proselitismo è un comportamento che io odio. E qui viene fuori la mia parte liberale. Io sono ateo e non voglio che qualcuno provi a convertirmi, perché la mia autonomia individuale è inviolabile. Di conseguenza io voglio fare lo stesso e, quando parlo di ateismo, non agisco mai con l’intento di deconvertire. Che poi è fallimentare: tanto non ci si riesce. Preferisco piuttosto piantare i semi dello scetticismo e del dubbio. D’altronde demolire non basta: dopo la pars destruens, bisogna offrire la pars construens. Bisogna proporre un’alternativa. Non si può togliere il terreno da sotto i piedi del credente e poi lasciarlo cadere nel vuoto.
Pensi che la società sarebbe migliore se il numero di non credenti fosse maggiore?
Le statistiche parlano chiaro, anche se si deve leggerle con cautela. Per esempio, alcune società profondamente atee come quelle cinese e nordcoreana sono repressive, perciò un Paese di atei non è per forza un Paese migliore. Però in molti Paesi si riscontra una correlazione fra il progresso politico-tecnologico e la presenza di persone non credenti. Prendi l’Olanda, per esempio, dove il 50% della popolazione dichiara di non appartenere a nessuna religione. In quel caso l’aspetto più importante non è quanti siano gli atei, bensì la convinzione della stragrande maggioranza che la religione debba essere una scelta privata e non debba immischiarsi negli affari pubblici. Allora, piuttosto che professare l’ateismo, bisogna promuovere il liberalismo e la laicità: io mi sento prima liberale e poi ateo.
Come giudichi l’azione degli atei militanti, che divulgano l’ateismo spesso con uno stile aggressivo e con l’intento di demolire la religione?
La questione è molto complessa. Di primo acchito ti direi che è importante la presenza di un approccio irriverente, provocatorio, a modo suo anche violento a livello comunicativo. Però non è un approccio nel quale mi riconosco. Penso addirittura che possa portare a una deriva dogmatica di fondamentalismo ateo. Io, quando incontro una persona credente, mi sento affascinato e incuriosito. Non accetterò mai di sottoscrivere l’equazione «credente = stupido». Purtroppo talvolta, ascoltando alcuni atei militanti, si ha l’impressione che questa sia la loro convinzione.
Siamo di fronte a un rinascimento religioso?
Non lo chiamerei «rinascimento», perché è una parola con un significato positivo. Piuttosto lo considero il ritorno di un certo tradizionalismo identitario e irrazionalista. Da un punto di vista demografico siamo messi male, perché le famiglie più prolifiche sono credenti, specie quelle musulmane e indù, mentre gli atei fanno pochi figli. Perciò, da qui a 30 anni, su scala globale l’ateismo è destinato a diventare una scelta ancor più di minoranza. Inoltre a livello culturale e filosofico vediamo la religione allearsi con il populismo. Immaginavamo che la ragione e la scienza avrebbero prevalso, invece assistiamo al risorgere del fondamentalismo religioso alleato con l’anti-intellettualismo populista.
Sei preoccupato?
Molto. Tu ora mi prendi in un periodo di pessimismo. Le informazioni che riceviamo all’IHEU a Londra sono deprimenti. Prendi il caso dell’Italia. L’uso del crocifisso, del rosario, dei santini di Padre Pio non sarebbe un problema in una società laica e liberale, dove resterebbe una scelta individuale confinata alla vita privata. Invece quei simboli diventano strumenti per un ritorno a una società monoconfessionale. Una conseguenza alla quale assisteremo sarà un’ulteriore stigmatizzazione dell’ateismo. E io temo che non ci sia nulla da fare.
Nulla di nulla?
Guarda, nemmeno scrivere articoli sembra più servire a qualcosa in una società così polarizzata. I social media ci hanno rovinati: ciascuno parla, comunica e interagisce nella propria bolla sociale, mentre tutti gli altri ignorano quel messaggio e anzi rafforzano il proprio pensiero opposto.
E quindi? Si molla tutto?
Ho letto troppo Camus per arrendermi. Ma il giorno in cui mi arrenderò starò zitto.
Tu che stai zitto? Ah ah. Pensi che qualcuno ci creda?
(Ride.). Allora diciamo che il giorno in cui mi arrenderò mi ammazzerò.
Sì, certo. Vabbe’. Ma tu, in tutta questa bella fase nichilista, hai deciso di scrivere il tuo libro sull’ateismo. Perché?
Perché volevo offrire una guida a chi oggi ha 14 o 15 anni e si trova nella condizione in cui mi trovavo io a quell’età. La guida che io non ho avuto.
Per deconvertire?
Ma no, te l’ho detto: io non voglio deconvertire nessuno. Il libro vuole solo parlare a una persona che nutre dei dubbi su Dio e che magari addirittura odia la filosofia, per mostrarle come la scelta atea sia possibile, accettabile, normale. Coerente sul piano filosofico. Non una scelta di serie B. Io ci ho messo anni per capirlo con grandi difficoltà e il mio libro vuole aiutare chi si trova oggi in quella situazione.
Da cui lo stile comunicativo semplice e colloquiale. Senza supercazzole.
È una scelta etica prima ancora che comunicativa. Il filosofo, come ogni altro intellettuale, ha la responsabilità di farsi capire. È chiaro: ogni campo del sapere ha la propria terminologia. Un fisico non potrà applicare un registro diverso da quello suo proprio quando comunica con altri fisici. Tuttavia quando si rivolge ai non addetti ai lavori deve mettersi nei loro panni e parlare in modo da essere comprensibile. Parlare «ad altezza d’uomo», per riprendere il nome del mio blog. Lo stesso deve fare il filosofo. Io quest’idea di filosofia «commestibile» me la porto dietro da anni. Avrei potuto scrivere un saggio complicato pieno di supercazzole, ma sarebbe stato destinato agli specialisti, e non era quello lo scopo. Lo scopo era invece rivolgersi a qualcuno che non solo non conosce bene la filosofia, ma magari la odia pure per partito preso.
Il tuo libro dedica molto spazio all’umanismo. Mi sembra di capire che quella è la pars construens alla quale ti riferivi prima. Che cos’è dunque l’umanismo?
Sì, è proprio la pars construens, quello che io definisco l’ateismo 3.0. L’ateismo 1.0 era quello dei pensatori individualisti che rischiavano la pelle per le proprie idee. L’ateismo 2.0 era quello del XIX e del XX secolo, quando è stato sdoganato nelle società occidentali e gli atei si sono uniti in associazioni per rivendicare il diritto alla libertà di pensiero e la laicità dello Stato. Allora l’ateismo 3.0 è l’umanismo, ovvero l’evoluzione più naturale e inevitabile. È una visione dell’esistenza che non si limita a negare l’esistenza di Dio e del soprannaturale, ma si concentra pure sulle facoltà empatiche e razionali degli esseri umani. E propone come valori l’autonomia e la realizzazione individuali, il metodo scientifico, la razionalità, la democrazia, la creatività artistica. Mentre l’ateismo classico si focalizza soltanto su due o tre problemi, sul piano politico l’umanismo ha un orizzonte molto più ampio: spazia dai diritti delle persone LGBT fino all’antirazzismo, dal femminismo fino all’universalismo dei diritti umani. In conclusione, l’umanismo è l’evoluzione necessaria all’ateismo per non restare intrappolato nel proprio anacronismo.
(Foto: Andrea Martella)
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