La giustizia ha tre scopi. Non uno di più. Altrimenti diventa vendetta di Stato.
Perché a un reato deve seguire una pena? Te lo sei mai chiesto? La risposta spontanea è: «Diamine, perché è giusto! Perché se la merita! Chi sbaglia paga!». Già, ma perché chi sbaglia deve pagare? Cos’è, una legge naturale? Certo che no: in Natura dominano la violenza e la sopraffazione del più forte sul più debole, con l’ovvia conseguenza della sopravvivenza del primo e la scomparsa del secondo. Alla faccia della giustizia. E dunque perché una pena?
Nei giorni scorsi la Cassazione ha emanato una sentenza su un caso di stupro di gruppo. Confermato il crimine, ha però eliminato un’aggravante. Apriti cielo! La canèa dei giustizialisti non s’è fatta attendere: qualsiasi riduzione di una pena pare un insulto alla vittima.
Sulle reazioni alla sentenza, Massimiliano Trovato scrive su Medium una riflessione giuridica pacata e razionale. Ndack Mbaye propone su The Vision alcune considerazioni sulla vittimizzazione sistematica delle fasce più deboli, che è controproducente per la causa degli oppressi: il colpevole va punito, ma il reato stesso è un fallimento dell’intera società che va oltre il caso individuale.
Io invece voglio prenderla più alla lontana, andare in profondità e discutere una questione generale: perché una pena? Ovvero: qual è il fine di una punizione?
La giustizia ha tre scopi. Non uno di più. Per questo dev’essere amministrata dalla Stato con razionalità e senza emotività.
- La protezione.
Un individuo pericoloso non può essere lasciato a piede libero: potrebbe nuocere ancora. Bisogna neutralizzarlo. - La dissuasione.
Molte persone sono tentate dall’idea di commettere un crimine. Un modo per dissuaderle consiste nella minaccia di una sanzione. - La rieducazione.
Nessun essere umano può essere abbandonato per sempre: bisogna tentare di convincerlo che le sue azioni erano sbagliate, affinché non le commetta più e torni nel consesso civile.
Fine: la punizione non serve a nient’altro. Non pone rimedio agli errori. Non consente di espiare alcunché. Non cancella il passato. Non resuscita i morti. Soprattutto non si applica per soddisfare le pulsioni irrazionali delle vittime o dei loro parenti. Quelli che, per intenderci, negli Stati Uniti si sentono appagati quando assistono all’esecuzione dell’assassino.
Questo vale per ogni criminale? Sì. Anche per il più abietto e spregevole? Sì. Anche per il genocida. Anche per il terrorista. Anche per lo stupratore e per il pedofilo. Vale per tutti.
Poi – è ovvio – si può discutere sull’entità di una pena. Protegge la società? Dissuade i potenziali criminali? Permette di recuperare il colpevole? Se non è così, se si conclude che una punizione più severa sarebbe più efficace per proteggere, dissuadere e recuperare, allora la si introduce. Oppure si cambia del tutto la legge. Nello stupro, per esempio, sarebbe molto meglio stabilire che, senza un consenso esplicito, la violenza c’è sempre. In Spagna ci stanno pensando.
Però quelle devono essere le sole ragioni: protezione, dissuasione, rieducazione. Non «Se la merita!», come pretende la massa irrazionale dei forcaioli, per i quali nessuna punizione è mai sufficiente. Fosse per loro, ogni delitto meriterebbe la pena di morte. Anzi no: la tortura sulla pubblica piazza.
Dice: «E se qualcuno facesse del male a tua figlia?». Ma certo: se qualcuno facesse del male a mia figlia, la mia prima reazione, di pancia, sarebbe quella di sfondargli il cranio a mazzate. Però io non sono lo Stato, che infatti esiste per amministrare la giustizia sulla base di princìpi razionali. Chi esige una punizione perché il colpevole «se la merita» non chiede giustizia, ma di fatto solo una vendetta di Stato. Ossia una barbarie, anche se soddisfa i contorcimenti di budella del branco.
In tutto questo sproloquio, Dio c’entra qualcosa? C’entra sì. Per chi crede, Dio è l’autore e/o il garante – l’autore o il garante?… pensaci – della legge morale. Lui amministra la giustizia suprema. Lui concede premi (il paradiso) e commina punizioni (l’inferno). Perché? Di sicuro non per difendere: quando il colpevole è morto, di danni non ne può più fare. Né per recuperare: che cosa recuperi dall’anima di un morto? Semmai solo per dissuadere i vivi con lo spauracchio delle fiamme eterne.
Ma poi funziona? Be’, a vedere le azioni dei credenti proprio in nome di quello stesso Dio, si direbbe di no.
Choam Goldberg
(Foto: Natural Philo)
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